venerdì 3 giugno 2011

Le città restano

«Gli stati passano, le città restano». Il motto di Giorgio La Pira torna in mente quando si celebrano i 65 anni della nostra giovane Repubblica, per di più nel 150° anniversario dell’Italia unita; l’Italia dei cento municipi, tutti più antichi di lei. E si mescola all’impressione prodotta dalla scossa elettorale di qualche giorno fa.
Un risultato che – lo hanno detto in molti – assomiglia a quello del 1993, quando la sinistra conquistò grandi città. Si votava allora per la prima volta con il sistema di elezione diretta del sindaco. E a vincere fu proprio la sinistra, non il centrosinistra: Rutelli (Verdi) a Roma, Bassolino (Pds) a Napoli; e poi atipici di sinistra, Cacciari a Venezia e Orlando a Palermo. Appena un anno dopo, nelle elezioni politiche con sistema maggioritario che inauguravano la Seconda Repubblica, il partito berlusconiano inventato in un batter d’occhio sgominò la baldanzosa coalizione dei Progressisti – la «macchina da guerra» di Achille Occhetto – che si era presentata separatamente dagli ex democristiani. Ci vollero altri due anni per far nascere la prima edizione di quello che oggi chiamiamo centrosinistra.

Ma una consimile analogia dovrebbe essere istituita con il 1975, l’anno della clamorosa vittoria amministrativa del Pci, che con il vecchio sistema elettorale proporzionale arrivò a insediare propri sindaci a Roma, Torino, Napoli e in altre città. Un trionfo che, tuttavia, non propiziò l’auspicato “sorpasso” nelle elezioni politiche di un anno dopo: il Pci ottenne il 34% dei voti, ma anche la Dc aumentò i suffragi. Ne nacque uno stallo; donde l’astensione comunista sul governo Andreotti. La situazione si avviò poi sulla china rovinosa che sappiamo.
Una cosa è certa. Da quattro decenni la sinistra – al di là delle regioni del suo insediamento storico – entra in sintonia più facilmente con le città grandi e medie, e quasi sempre ha giocato le sue migliori carte nelle competizioni comunali. Sarà perché nelle concentrazioni urbane si trovano più che altrove fasce di lavoro dipendente sindacalizzato, ceti professionali tendenzialmente progressisti, circuiti culturali dinamici, attive presenze giovanili, e magari gli stranieri che arricchiscono le idee. Intorno a questi nuclei si sono aggregati settori di opinione variegati a seconda dei momenti storici, consentendo alla sinistra di conquistare la maggioranza e, talvolta, di vincere in territori più ampi, province e regioni con cui non era tradizionalmente in armonia.

Anche la Primavera Pugliese è nata nel 2004, quando il Tacco d’Italia sembrava un incrollabile feudo della destra: un nuovo movimento di partecipazione seppe mettere a frutto la sensibilità civica maturata nel capoluogo, eleggendo sindaco Michele Emiliano, e un anno dopo, propagandosi nella regione, portò alla guida della Puglia il «sovversivo» Nichi Vendola. Certo, vi fu il concorso di fattori esterni quali i fallimenti e le debolezze della destra. Così oggi nel risultato amministrativo c’è la disaffezione verso il berlusconismo, incrementata dai movimenti di protesta dell’ultimo anno. C’è la scoperta di quanto povera e desolante sia la cultura di governo locale della destra: quella che ha impedito al Pdl di mietere successi a Napoli, come la logica e i mezzi avrebbero comportato; quella propaganda leghista asfittica, da Deserto dei Tartari, che per esempio ha ridotto la seconda città del Piemonte (Novara) a un triste borgo di provincia. Ma non si vince senza una forza soggettiva, che nasce quando c’è una medesima lunghezza d’onda fra i candidati, gli aggregati politici che li esprimono e settori di cittadinanza tanto motivati da diventare trainanti. Questo è successo a Milano e a Napoli, a Cagliari e a Trieste, a Novara e anche a Nardò.

Le città sono i più antichi luoghi della politica (da polis), da sempre laboratori delle trasformazioni e delle rivoluzioni. La lotta e la mediazione, la democrazia e la capacità amministrativa, sono il prodotto di generazioni che in età remote hanno incominciato a misurarsi con i conflitti e con il governo delle società cittadine. Le città non sono caselle che, riempite, ti fanno vincere la tombola. Per costruire una forza vincente sul piano nazionale, la sinistra (che rema sempre controcorrente, anche se spesso si illude che non sia così) deve portare a sintesi una grandissima complessità risultante da molte diversità. Perciò – salvo che non s’innamori di una ricerca del consenso che non le appartiene, quella puramente mediatica – deve guardare alle città (e in differente misura alle regioni) come a preziose scuole della politica.

Due grandi capitali, del Nord e del Sud, al termine di una battaglia che ha suscitato entusiasmo e stupore, si sono riappropriate di un ruolo storico. Hanno imposto come termine di confronto l’esperienza di una rete di solidarietà e di intelligenze in grado di creare egemonia (Milano), e la capacità di intercettare con straordinario tempismo un bisogno popolare di rinnovamento (Napoli). E c’è un’altra conseguenza: l’«anomalia pugliese» ha fatto il suo tempo. Ne è stata archiviata la mitologia espansionistica: le riprove sono da un lato la sua ininfluenza nel cataclisma napoletano, dall’altro la voce dal sen fuggita a Vendola, prontamente stoppata da Pisapia. Milano si è liberata da sola, semplicemente perché ne aveva le forze.