Per esempio, il libro di Claudio Pavone uscito vent’anni fa (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991) dibatteva senza inibizioni la categoria storiografica della «guerra civile» – assai ostica, fino a quel momento, per la storiografia di sinistra – con uno studio vasto e documentato dal quale emergeva sorprendentemente arricchita, nella sua concreta sostanza umana, la «moralità» della lotta partigiana. All’opposto, il libro di Giampaolo Pansa apparso otto anni fa (Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano, 2003) è un collage di seconda mano, che mette insieme con sconcertante leggerezza episodi diversi, a proposito dei quali esistono ricostruzioni e documenti di valore disomogeneo, e perciò enfatizza – con lo stile di un pamphlet e non certo di una seria opera storica – le “atrocità” commesse dai partigiani, assunte come elementi sostanziali di una (presunta) nuova interpretazione della storia resistenziale.
L’allargamento e il rinnovamento dei modi di leggere la storia ci sembrano un bisogno vitale. Il sovversivismo storiografico invece non ci interessa: o meglio, lo trattiamo come parte di una battaglia culturale esplicita, come una provocazione ideologica con tratti di teppismo intellettuale, intesa a spacciare per “rivoluzionario” quello che è soltanto un arbitrario capovolgimento dei verdetti. (Da questo punto di vista l’affermazione secondo cui partigiani e fascisti non sono poi dissimili è non meno soggettivistica dell’altra secondo cui lo sterminio degli ebrei non è mai avvenuto).
Un pregevole contributo al rinnovamento storiografico è, invece, costituito dal recente libro di Andrea Martocchia, I partigiani jugoslavi nella resistenza italiana (Odradek, Roma, 2011), che si avvale della collaborazione di altri studiosi, fra i quali Gaetano Colantuono, curatore del capitolo sulla Puglia.
Una documentazione di prima mano, raccolta da entrambe le sponde dell’Adriatico, porta alla luce una realtà storica finora sottovalutata se non ignorata: il contributo sostanzioso che alla guerra contro il nazifascismo in Italia dettero migliaia di iugoslavi, internati nei campi di prigionia fascisti, liberatisi dopo l’8 settembre e confluiti nella Resistenza, alla quale parteciparono o, in alcuni casi, dettero inizio, favorendo la formazione di gruppi di combattenti italiani. Una presenza che si mostra cospicua nella dinamica della guerra partigiana in Toscana, Abruzzo, Marche; le tombe di oltre 2.300 caduti iugoslavi sono sparse nei cimiteri italiani. Particolare è il caso della Puglia (dove pure esistevano campi di internamento), che, fra le prime regioni liberate, diventa una retrovia strategica della guerra antinazista, a disposizione non solo degli Anglo- americani, ma anche dell’esercito jugoslavo, partner indispensabile per la vittoria in Europa.
Nascono centri di reclutamento e addestramento degli ex prigionieri e profughi jugoslavi, militari e civili, strutture di assistenza e ospedali, disseminati in tutta la Puglia, dal Foggiano al Barese al Salento; lo stesso Tito arriva a Bari per incontrare gli alti comandi alleati. Il quadro storico della Puglia come crocevia internazionale, e della infrastruttura pugliese nella sua funzione cruciale per l’ultima fase della guerra, viene da questa ricerca confermato e arricchito di tasselli qualificanti.
Ma il libro di Martocchia ha anche il merito di interrogarsi sulle ragioni dell’opacità storiografica che ha messo in ombra fin da subito il ruolo dei partigiani iugoslavi nella Resistenza italiana.
Su questo argomento non si leggono che pochissime righe nel testo fondativo della storiografia resistenziale, l’epica sintesi di Roberto Battaglia (Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino, 1953). La rimozione è stata il prodotto di un complesso di cause, che discendono dalla catena di conflitti e risentimenti sorti fra Italia e Iugoslavia durante e dopo il fascismo: non solo la controversia di confine nell’area triestina e istriana, che ebbe come epilogo drammatico l’esodo giuliano-dalmata, ma anche l’imbarazzante eredità dell’aggressione fascista alla Iugoslavia, per la quale l’Italia non ha mai riconosciuto i crimini di guerra commessi, né tanto meno ha consentito la punizione dei responsabili; ed è singolare che questa reticenza abbia in qualche modo condizionato la stessa compagine resistenziale nonché gli studi sulla guerra partigiana.
A ciò si aggiungevano gli effetti culturali della rottura fra Stalin e Tito alla fine degli anni ’40, con il conseguente schierarsi del Pci contro i comunisti iugoslavi. Dalla stratificazione degli odii non risolti e spesso irresponsabilmente alimentati – non adeguatamente contrastata da un’interpretazione della Resistenza che tendeva a privilegiarne unilateralmente il carattere “nazionale”, di guerra patriottica – germogliava lo stereotipo di una “razza” ciecamente nazionalista, degli “slavi” naturalmente inclini alla violenza e alla brutalità. Lo sfaldamento della Iugoslavia negli anni ’90, ravvivando i miti delle nazionalità balcaniche inconciliabili, incrementava la dispersione della memoria storica di un Paese che non soltanto si era liberato dai nazifascisti senza l’intervento di armate alleate nel suo territorio, ma era stato decisivo per la sconfitta del nazismo nell’Europa meridionale.