venerdì 10 giugno 2011

Buio mediterraneo

Sarebbe saggio dismettere il cliché che raffigura il Mediterraneo come spazio solare dell’incontro, della contaminazione culturale, dell’accoglienza. Non perché il Mediterraneo non sia stato, a volte, “anche” questo. Non perché non sia bello coltivare l’utopia della convivialità mediterranea – quella raccontata da Predrag Matvejevic e da Franco Cassano – rintracciando sapori e pensieri salutari che intersecano i modi di vivere sulle sponde dell’antico mare. Ma perché sarebbe saggio prendere atto che da troppo tempo questo è un mare di naufragio e di morte. Lo è non per fatalità o per colpa delle burrasche, di Scilla e Cariddi, del canto delle sirene, ma per responsabilità di esseri umani; per quella concatenazione perversa di fattori umani – scelte, decisioni, azioni politiche – che chiamiamo globalizzazione, divario Nord-Sud, eredità del colonialismo, «guerra umanitaria», «contrasto all’immigrazione clandestina» e via dicendo.

Ma l’Italia, lunga banchina portuale della fortezza-Europa protesa sotto il sole del mare nostrum, in questi casi preferisce la nebbia.
Qualche giorno fa la tragedia degli oltre duecento dispersi di un barcone tunisino – ne sono stati recuperati in mare alcuni corpi – ha stimolato le allarmate considerazioni di Claudio Magris e del Presidente Napolitano a proposito dell’indifferenza con cui la nostra opinione pubblica riceve (e ignora) notizie come queste – quel poco che trapela di una realtà duratura. Ci sembra peraltro sbagliato scaricare tutte le colpe sugli scafisti criminali come se fossero la causa del fenomeno e non l’effetto. Se la risposta a un bisogno insopprimibile, quello di emigrare, è una legge che rende clandestini quasi tutti coloro che emigrano, ed equipara clandestini e delinquenti, non si elimina il fenomeno: si ottiene un corto circuito (voluto?) che consegna i migranti agli imprenditori dell’immigrazione illegale.

Ma quel che più colpisce è la tendenza a rimuovere, mettere tra parentesi, derubricare questi fatti come secondari o episodici benché dolorosi. A elaborare mitologie consolatorie e mistificanti, come il luogo comune degli italiani «accoglienti» (lo stesso che ha generato la dizione giornalistica di «centri di accoglienza» per indicare i centri di detenzione dei clandestini in procinto di essere espulsi). Da questa distorsione non è immune la Puglia. Per esempio, è davvero singolare che lo storico approdo della nave Vlora carica di oltre quindicimila albanesi (agosto 1991: ne ricorre quest’anno il ventennale) sia stato fissato a Bari nella memoria convenzionale come un avvenimento drammatico, sì, del quale però si celebra soprattutto il valore dell’accoglienza da parte dei baresi. In questo caso l’«utopia» partorisce l’«ucronia» («descrizione di un avvenimento sulla base di dati immaginari»). Il soccorso dei baresi ci fu, è vero, ma non bastò a cambiare le decisioni del governo e il senso dell’evento: la marea umana fu reclusa nello stadio della Vittoria in condizioni di spaventoso disagio, quindi deportata e rimpatriata con un ponte aereo. «Accoglienza» parrebbe una sintesi alquanto impropria (ucronica).

E ancora. Circa dieci anni fa si parlò di candidare il Salento al premio Nobel per la pace, grazie allo spirito di ospitalità dimostrato dalle sue popolazioni. Peccato che nel frattempo l’esempio giornalistico di quella ospitalità, il Regina Pacis, si andasse trasformando in un centro di detenzione dove si intrecciavano affarismo e violenza. Non dobbiamo dimenticare condizioni che non sarebbero adeguatamente conosciute senza il lavoro di reporter audaci, quali la semischiavitù dei clandestini impiegati come braccianti stagionali nel Foggiano. E davanti alla costa di Brindisi si è consumata nel 1997 la più letale aggressione militare perpetrata contro un battello di migranti: l’affondamento della Kater i Rades speronata da una nave della marina italiana (81 cadaveri recuperati, nessun militare rinviato a giudizio). Al governo non c’era l’orrido Leghista – che ogni giorno minaccia di prendere a cannonate le carrette del mare – ma il centrosinistra. Da parte loro, soprattutto (ma non solo) i governi di destra hanno incrementato l’abuso della Apulia felix come retrovia dove concentrare Cie (centri di identificazione ed espulsione) e Cara (i campi per i richiedenti asilo), e dove sperimentare entità indefinibili, fantasmi giuridici come la recente tendopoli di Manduria.

Certo la Puglia non è solo questo. È anche un’onesta legge regionale sull’immigrazione. È la solidarietà di associazioni che operano senza clamori. È l’impegno di scuole che aprono le aule ai figli di clandestini (le leggi lo prevedono, ma sono molti i modi per eluderle). Segni di un umanesimo alieno da ipocrisia, che si può incontrare qua e là in tutta Italia, in qualche istituzione locale, sparso fra medici, operatori sociali, religiosi e semplici cittadini. Ma sarebbe serio evitare l’autocompiacimento e l’autoassoluzione. In Italia sono in vigore norme sull’immigrazione che la stessa Europa ha giudicato lesive del diritto; chi ha provato veramente a cambiarle? In questo Paese di frontiera non esiste una legge specifica sull’asilo. E per gli “ospiti” che bene o male rimangono, accoglienza, integrazione, pari opportunità sono per lo più miraggi da inseguire. È ancora buio sul nostro Mediterraneo.