Non sappiamo in quanti se ne siano accorti, ma in Italia c’è un nuovo Governo. La compagine insediata trionfalmente dal Premier dopo la vittoria elettorale del 2008 si è squagliata, ed è stata sostituita da qualcosa di inafferrabile e sostanzialmente inedito: un governo liquido e policentrico. In verità la cosa era già ben avviata un anno fa, quando la maggioranza di destra perse uno dei soci fondatori; ma il Premier disse che non era vero, che anzi usciva rafforzato dall’epurazione; molta stampa lo stette a sentire; l’opposizione, con l’aiuto del Presidente della Repubblica, gli lasciò il tempo di reclutare un’altra maggioranza parlamentare, posticcia e sfacciatamente venale. Allora si era all’inizio del fenomeno, che oggi è sotto agli occhi di tutti.
Il Premier non governa più nulla – cioè non fa nemmeno più finta di svolgere un’azione di governo, come faceva quando si agitava qua e là, su Napoli, L’Aquila e quant’altro – ma si occupa ormai apertamente solo di salvare la pelle a sé e al suo impero aziendale. Sugli atti di rilievo, formalmente approvati dal suo governo (interventi militari, manovra economica), dice che lui non è d’accordo, che gli vengono imposti dall’esterno. Il che in un certo senso risponde al vero. Il solo atto di governo di apparente valenza generale (a parte la manovra economica «dovuta»), cioè il decreto rifiuti, non passa perché la stessa maggioranza non lo vuole. E ciò che il Premier dichiara demagogicamente di volere (il taglio delle tasse, la riduzione dei costi della politica ecc.) non si fa, non si può fare, diventa argomento di barzelletta.
Ormai tutti vedono il ruolo di supplenza politica del Presidente della Repubblica, che rispetto ai partner internazionali si pone come unico garante affidabile degli impegni dell’Italia; un tale ruolo svolgeva anche, nel suo ambito, il ministro dell’Economia, e continua a svolgerlo benché manifestamente ripudiato dalla cricca del Premier e pesantemente screditato dallo scandalo che travolge il suo braccio destro. Altre materie di competenza della politica sono state completamente dismesse da molti mesi: in primo luogo la politica industriale e del lavoro, appaltata alla Fiat e alla Confindustria (due soggetti a loro volta in gara fra loro, per vedere come meglio realizzare la resa incondizionata dei sindacati); o la politica “della nascita e della morte”, appaltata alle gerarchie vaticane.
E poi, a governare l’Italia, ci sono i mitici “Mercati” (fantomatica entità che ha sostituito la democrazia), cioè la speculazione finanziaria, unitamente alla Banca centrale europea e alla variegata comitiva di decisori autocratici. Il che vale per tutti i Paesi, un po’ più per chi come l’Italia ha un governo di carta. Tutte queste forze che oggi esercitano un Governo reale, policentrico e suppletivo – Confindustria, Vaticano, capitale finanziario, vertici istituzionali – convergono sulla necessità di tenere in piedi il castello di carte del Premier in quanto un’alternativa non è ancora pronta. Anzi, dal certi punti di vista, per il momento, il castello di carte è l’optimum: perché è debole, ricattabile, e in cambio di un po’ di respiro farà tutto ciò che gli si ordina. Resta in piedi a causa della “moral suasion” del Capo dello Stato – indirizzata in realtà all’opposizione – : pertanto la manovra finanziaria è approvata in tempi contingentati, il che non era riuscito a precedenti governi ben più forti; così come il castello di carte si era salvato nel dicembre 2010 perché «la priorità era la legge finanziaria», «la stabilità del Paese» e via dicendo. Intanto, il Governo reale è in mano altrui.
In tutto questo, la Sinistra non c’entra. Come avevamo previsto, non è lei a giocarsi la partita che è stata riaperta dalle elezioni amministrative e dai referendum. Ha dovuto ingoiare la manovra economica più svergognata, degna dei Miserabili di Victor Hugo (i poveri soffrono, i ricchi godono) limitandosi a lagnarsi perché lei, la Sinistra, non l’avrebbe fatta così. Non è lei a potersi fregiare del voto parlamentare di autorizzazione all’arresto di un deputato (il primo da 27 anni! dico – possibile che in 27 anni tutte le richieste di arresto fossero persecutorie?). Infatti è stato un sacrificio umano offerto dalla Lega al suo popolo imbufalito. La Sinistra (anche quella estrema) disquisisce poi sul carattere qualunquistico dell’attacco alla «casta» e della campagna mediatica sui «costi della politica».
E, perbacco, riesce perfino ad avanzare argomenti dalla parvenza ragionevole punto per punto (come si fa ad abolire di botto le Province, previste dalla Costituzione? come può un vero precario, un singolo individuo gestire una campagna efficace come quella di Spider Truman? ecc. ecc.). Peccato che le sfugga il senso generale delle cose. Peccato che anche stavolta – grazie a un deprimente immobilismo – corra il rischio di restare al palo e di farsi travolgere. Come fu nel 1994; come fu nel 2006, quando una vittoria di Pirro anticipò la batosta di due anni dopo. Della quale fu parte non secondaria la scomparsa della Sinistra sinistra dalle aule parlamentari. Come se non bastasse, questi tre anni e mezzo di esilio non sono bastati alla Sinistra sinistra per riflettere, riorganizzarsi, ma sono stati motivo di lite e rancore fra gli esuli, che oggi appaiono irrimediabilmente divisi in direzioni centrifughe.
Quanto alla Sinistra centrosinistra, non sembra inverosimile un’ipotesi ancora peggiore: che per lei il senso delle cose sia proprio di aspirare a un presunto ruolo di comprimaria dentro il nuovo quadro cui altri stanno lavorando.
Ma si sa, il pessimismo della ragione è congeniale all’ottimismo della volontà. Speriamo che valga anche adesso.


Nell’imminenza del decennale, in molte città italiane vengono rievocati i giorni del G8 di Genova 2001, le manifestazioni promosse dal Genoa Social Forum, la repressione poliziesca che costò la vita a Carlo Giuliani (20 luglio) e culminò nell’aggressione alla scuola Diaz (notte del 21-22 luglio). Anche in Puglia si tengono incontri; a Bari un gruppo di militanti e studiosi ha promosso una giornata seminariale presso la casa dei missionari comboniani (a suo tempo protagonisti di quello che fu battezzato «movimento dei movimenti»).
Fa piacere che un tema su Destra e Sinistra sia stato proposto agli esami di maturità. Chi sa se, nascosto tra le sparse “rose” predisposte da una commissione ministeriale, è stato ripescato soltanto dopo le elezioni e i referendum. L’attualità è innegabile: molti tornano a porsi questo interrogativo – che cos’è veramente la Destra, che cosa la Sinistra – ora che in Italia una particolare destra, quella berlusconiana, è in crisi, e una particolare sinistra, tuttora indefinita nei suoi contorni, è spinta dallo stato di cose a doversi offrire come guida del Paese in un futuro più o meno prossimo.
Il terremoto referendario del 12-13 giugno è stato già analizzato da miriadi di commenti. E ancora nell’immediato futuro stimolerà – ci auguriamo – una riflessione profonda. Per parte nostra, in questa grande e confortante prova di democrazia, che spazza via gli incubi depressivi durati troppo a lungo rafforzando lo stato di buon umore già originato dalle elezioni amministrative, vogliamo rilevare qui un solo dato: quello di un risveglio che definiremmo come una sorta di “ritorno alla normalità”.
Sarebbe saggio dismettere il cliché che raffigura il Mediterraneo come spazio solare dell’incontro, della contaminazione culturale, dell’accoglienza. Non perché il Mediterraneo non sia stato, a volte, “anche” questo. Non perché non sia bello coltivare l’utopia della convivialità mediterranea – quella raccontata da Predrag Matvejevic e da Franco Cassano – rintracciando sapori e pensieri salutari che intersecano i modi di vivere sulle sponde dell’antico mare. Ma perché sarebbe saggio prendere atto che da troppo tempo questo è un mare di naufragio e di morte. Lo è non per fatalità o per colpa delle burrasche, di Scilla e Cariddi, del canto delle sirene, ma per responsabilità di esseri umani; per quella concatenazione perversa di fattori umani – scelte, decisioni, azioni politiche – che chiamiamo globalizzazione, divario Nord-Sud, eredità del colonialismo, «guerra umanitaria», «contrasto all’immigrazione clandestina» e via dicendo.
«Gli stati passano, le città restano». Il motto di Giorgio La Pira torna in mente quando si celebrano i 65 anni della nostra giovane Repubblica, per di più nel 150° anniversario dell’Italia unita; l’Italia dei cento municipi, tutti più antichi di lei. E si mescola all’impressione prodotta dalla scossa elettorale di qualche giorno fa.
Come si sa, una folata “revisionista” aleggia sulla storia della Resistenza. Un’offensiva, supportata da ripetuti interventi giornalistici, politici e perfino istituzionali. Va da sé che tutto questo non c’entri davvero con il “revisionismo” storiografico. Nulla sorregge l’autentica ricerca storica più della spinta a “rivedere” il passato battendo sentieri inesplorati e svelando angolazioni originali.