sabato 28 maggio 2011

Resistenza sconosciuta

Come si sa, una folata “revisionista” aleggia sulla storia della Resistenza. Un’offensiva, supportata da ripetuti interventi giornalistici, politici e perfino istituzionali. Va da sé che tutto questo non c’entri davvero con il “revisionismo” storiografico. Nulla sorregge l’autentica ricerca storica più della spinta a “rivedere” il passato battendo sentieri inesplorati e svelando angolazioni originali.

Per esempio, il libro di Claudio Pavone uscito vent’anni fa (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991) dibatteva senza inibizioni la categoria storiografica della «guerra civile» – assai ostica, fino a quel momento, per la storiografia di sinistra – con uno studio vasto e documentato dal quale emergeva sorprendentemente arricchita, nella sua concreta sostanza umana, la «moralità» della lotta partigiana. All’opposto, il libro di Giampaolo Pansa apparso otto anni fa (Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano, 2003) è un collage di seconda mano, che mette insieme con sconcertante leggerezza episodi diversi, a proposito dei quali esistono ricostruzioni e documenti di valore disomogeneo, e perciò enfatizza – con lo stile di un pamphlet e non certo di una seria opera storica – le “atrocità” commesse dai partigiani, assunte come elementi sostanziali di una (presunta) nuova interpretazione della storia resistenziale.

L’allargamento e il rinnovamento dei modi di leggere la storia ci sembrano un bisogno vitale. Il sovversivismo storiografico invece non ci interessa: o meglio, lo trattiamo come parte di una battaglia culturale esplicita, come una provocazione ideologica con tratti di teppismo intellettuale, intesa a spacciare per “rivoluzionario” quello che è soltanto un arbitrario capovolgimento dei verdetti. (Da questo punto di vista l’affermazione secondo cui partigiani e fascisti non sono poi dissimili è non meno soggettivistica dell’altra secondo cui lo sterminio degli ebrei non è mai avvenuto).

Un pregevole contributo al rinnovamento storiografico è, invece, costituito dal recente libro di Andrea Martocchia, I partigiani jugoslavi nella resistenza italiana (Odradek, Roma, 2011), che si avvale della collaborazione di altri studiosi, fra i quali Gaetano Colantuono, curatore del capitolo sulla Puglia.

Una documentazione di prima mano, raccolta da entrambe le sponde dell’Adriatico, porta alla luce una realtà storica finora sottovalutata se non ignorata: il contributo sostanzioso che alla guerra contro il nazifascismo in Italia dettero migliaia di iugoslavi, internati nei campi di prigionia fascisti, liberatisi dopo l’8 settembre e confluiti nella Resistenza, alla quale parteciparono o, in alcuni casi, dettero inizio, favorendo la formazione di gruppi di combattenti italiani. Una presenza che si mostra cospicua nella dinamica della guerra partigiana in Toscana, Abruzzo, Marche; le tombe di oltre 2.300 caduti iugoslavi sono sparse nei cimiteri italiani. Particolare è il caso della Puglia (dove pure esistevano campi di internamento), che, fra le prime regioni liberate, diventa una retrovia strategica della guerra antinazista, a disposizione non solo degli Anglo- americani, ma anche dell’esercito jugoslavo, partner indispensabile per la vittoria in Europa.

Nascono centri di reclutamento e addestramento degli ex prigionieri e profughi jugoslavi, militari e civili, strutture di assistenza e ospedali, disseminati in tutta la Puglia, dal Foggiano al Barese al Salento; lo stesso Tito arriva a Bari per incontrare gli alti comandi alleati. Il quadro storico della Puglia come crocevia internazionale, e della infrastruttura pugliese nella sua funzione cruciale per l’ultima fase della guerra, viene da questa ricerca confermato e arricchito di tasselli qualificanti.
Ma il libro di Martocchia ha anche il merito di interrogarsi sulle ragioni dell’opacità storiografica che ha messo in ombra fin da subito il ruolo dei partigiani iugoslavi nella Resistenza italiana.

Su questo argomento non si leggono che pochissime righe nel testo fondativo della storiografia resistenziale, l’epica sintesi di Roberto Battaglia (Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino, 1953). La rimozione è stata il prodotto di un complesso di cause, che discendono dalla catena di conflitti e risentimenti sorti fra Italia e Iugoslavia durante e dopo il fascismo: non solo la controversia di confine nell’area triestina e istriana, che ebbe come epilogo drammatico l’esodo giuliano-dalmata, ma anche l’imbarazzante eredità dell’aggressione fascista alla Iugoslavia, per la quale l’Italia non ha mai riconosciuto i crimini di guerra commessi, né tanto meno ha consentito la punizione dei responsabili; ed è singolare che questa reticenza abbia in qualche modo condizionato la stessa compagine resistenziale nonché gli studi sulla guerra partigiana.

A ciò si aggiungevano gli effetti culturali della rottura fra Stalin e Tito alla fine degli anni ’40, con il conseguente schierarsi del Pci contro i comunisti iugoslavi. Dalla stratificazione degli odii non risolti e spesso irresponsabilmente alimentati – non adeguatamente contrastata da un’interpretazione della Resistenza che tendeva a privilegiarne unilateralmente il carattere “nazionale”, di guerra patriottica – germogliava lo stereotipo di una “razza” ciecamente nazionalista, degli “slavi” naturalmente inclini alla violenza e alla brutalità. Lo sfaldamento della Iugoslavia negli anni ’90, ravvivando i miti delle nazionalità balcaniche inconciliabili, incrementava la dispersione della memoria storica di un Paese che non soltanto si era liberato dai nazifascisti senza l’intervento di armate alleate nel suo territorio, ma era stato decisivo per la sconfitta del nazismo nell’Europa meridionale.


sabato 21 maggio 2011

I misfatti di Pisapia

Un’onda ilare e incontenibile scuote in questi giorni il web e i social network. Migliaia di persone si divertono a inventare le malefatte più strepitose, sordide e inverosimili a carico di Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra a sindaco di Milano. Ovviamente, tutto nasce dalla panzana che il sindaco uscente Letizia Moratti ha sparato nel disastroso (per lei) faccia a faccia televisivo: Pisapia ha rubato un’auto per aiutare i terroristi. Su siti come www.pisapiafacts.it e su varie pagine Facebook si possono leggere sequenze esilaranti di post come questi: «Pisapia ruba il cibo a Fassino. Pisapia non viveva un'emozione così forte (47%) dall'ultima volta che ha rubato una macchina. Pisapia ruba le dentiere alle vecchiette e ci suona le nacchere nei centri sociali. Pisapia è senza cuore perché non aiuta le minorenni bisognose. Piove, Pisapia ladro».
È la manifestazione rincuorante di un’atmosfera mutata dopo il primo turno elettorale del 15 maggio. Fino a una settimana fa il dibattito pubblico e privato s’intonava a coloriture plumbee, la visuale era di tipo catastrofico, e il riso, quando c’era, suonava amaro. Ora sembra che un incantesimo sia infranto. L’aggressione verbale, tipica della strategia comunicativa intimidatoria del berlusconismo, si è rivelata una pistola scarica. E a scoprire il bluff non sono state né le alchimie parlamentari, né le campagne giornalistiche, né le inchieste giudiziarie, bensì il fattore davvero determinante: il voto. Così il popolo del dissenso ha preso coraggio, e ora sommerge le cassandre della destra con i materiali da lancio che sono da sempre i più micidiali: l’ironia, la derisione, la satira.
«Una risata vi seppellirà» è uno degli slogan più celebri del ’68. Prendendolo alla lettera, qualche solone spiegherà che purtroppo non è vero. Invece la satira e la dissacrazione sono il sintomo e la premessa dei cambiamenti. Andare a vedere le carte, rovesciare il gioco dell’avversario, ridicolizzare le sue formule propagandistiche: può diventare una strategia. Ci riuscì la campagna elettorale pugliese di Nichi Vendola nel 2005, con i fortunati slogan di Proforma: «Diverso, Sovversivo, Pericoloso» (che tanto preoccupavano le anime timorose del centrosinistra); un metodo ripreso nel 2010, quando i sagaci comunicatori misero in rima il programma del Governatore della Puglia, che i denigratori accusavano di essere nient’altro se non «un poeta».
Non sappiamo come andrà il ballottaggio a Milano, Napoli, Trieste, Cagliari. Certo è che l’intera partita si è riaperta. Abbiamo buone ragioni per sperare; ragioni che si respirano, per così dire, nel buon umore. Persino l’arroganza del premier – che sequestra cinque canali televisivi nazionali per ammannire i soliti sproloqui contro i comunisti, gli zingari e i centri sociali – se ci indigna, non ci spaventa più. Il Padrone si toglie la maschera e gioca tutte le sue carte per la sopravvivenza. Ma questo è l’ultimo capitolo della storia. Non è detto che l’epilogo ci piacerà, ma per il momento ci stiamo provando gusto.