venerdì 22 luglio 2011

Il castello di carte

Non sappiamo in quanti se ne siano accorti, ma in Italia c’è un nuovo Governo. La compagine insediata trionfalmente dal Premier dopo la vittoria elettorale del 2008 si è squagliata, ed è stata sostituita da qualcosa di inafferrabile e sostanzialmente inedito: un governo liquido e policentrico. In verità la cosa era già ben avviata un anno fa, quando la maggioranza di destra perse uno dei soci fondatori; ma il Premier disse che non era vero, che anzi usciva rafforzato dall’epurazione; molta stampa lo stette a sentire; l’opposizione, con l’aiuto del Presidente della Repubblica, gli lasciò il tempo di reclutare un’altra maggioranza parlamentare, posticcia e sfacciatamente venale.

Allora si era all’inizio del fenomeno, che oggi è sotto agli occhi di tutti.
Il Premier non governa più nulla – cioè non fa nemmeno più finta di svolgere un’azione di governo, come faceva quando si agitava qua e là, su Napoli, L’Aquila e quant’altro – ma si occupa ormai apertamente solo di salvare la pelle a sé e al suo impero aziendale. Sugli atti di rilievo, formalmente approvati dal suo governo (interventi militari, manovra economica), dice che lui non è d’accordo, che gli vengono imposti dall’esterno. Il che in un certo senso risponde al vero. Il solo atto di governo di apparente valenza generale (a parte la manovra economica «dovuta»), cioè il decreto rifiuti, non passa perché la stessa maggioranza non lo vuole. E ciò che il Premier dichiara demagogicamente di volere (il taglio delle tasse, la riduzione dei costi della politica ecc.) non si fa, non si può fare, diventa argomento di barzelletta.

Ormai tutti vedono il ruolo di supplenza politica del Presidente della Repubblica, che rispetto ai partner internazionali si pone come unico garante affidabile degli impegni dell’Italia; un tale ruolo svolgeva anche, nel suo ambito, il ministro dell’Economia, e continua a svolgerlo benché manifestamente ripudiato dalla cricca del Premier e pesantemente screditato dallo scandalo che travolge il suo braccio destro. Altre materie di competenza della politica sono state completamente dismesse da molti mesi: in primo luogo la politica industriale e del lavoro, appaltata alla Fiat e alla Confindustria (due soggetti a loro volta in gara fra loro, per vedere come meglio realizzare la resa incondizionata dei sindacati); o la politica “della nascita e della morte”, appaltata alle gerarchie vaticane.

E poi, a governare l’Italia, ci sono i mitici “Mercati” (fantomatica entità che ha sostituito la democrazia), cioè la speculazione finanziaria, unitamente alla Banca centrale europea e alla variegata comitiva di decisori autocratici. Il che vale per tutti i Paesi, un po’ più per chi come l’Italia ha un governo di carta. Tutte queste forze che oggi esercitano un Governo reale, policentrico e suppletivo – Confindustria, Vaticano, capitale finanziario, vertici istituzionali – convergono sulla necessità di tenere in piedi il castello di carte del Premier in quanto un’alternativa non è ancora pronta. Anzi, dal certi punti di vista, per il momento, il castello di carte è l’optimum: perché è debole, ricattabile, e in cambio di un po’ di respiro farà tutto ciò che gli si ordina. Resta in piedi a causa della “moral suasion” del Capo dello Stato – indirizzata in realtà all’opposizione – : pertanto la manovra finanziaria è approvata in tempi contingentati, il che non era riuscito a precedenti governi ben più forti; così come il castello di carte si era salvato nel dicembre 2010 perché «la priorità era la legge finanziaria», «la stabilità del Paese» e via dicendo. Intanto, il Governo reale è in mano altrui.

In tutto questo, la Sinistra non c’entra. Come avevamo previsto, non è lei a giocarsi la partita che è stata riaperta dalle elezioni amministrative e dai referendum. Ha dovuto ingoiare la manovra economica più svergognata, degna dei Miserabili di Victor Hugo (i poveri soffrono, i ricchi godono) limitandosi a lagnarsi perché lei, la Sinistra, non l’avrebbe fatta così. Non è lei a potersi fregiare del voto parlamentare di autorizzazione all’arresto di un deputato (il primo da 27 anni! dico – possibile che in 27 anni tutte le richieste di arresto fossero persecutorie?). Infatti è stato un sacrificio umano offerto dalla Lega al suo popolo imbufalito. La Sinistra (anche quella estrema) disquisisce poi sul carattere qualunquistico dell’attacco alla «casta» e della campagna mediatica sui «costi della politica».

E, perbacco, riesce perfino ad avanzare argomenti dalla parvenza ragionevole punto per punto (come si fa ad abolire di botto le Province, previste dalla Costituzione? come può un vero precario, un singolo individuo gestire una campagna efficace come quella di Spider Truman? ecc. ecc.). Peccato che le sfugga il senso generale delle cose. Peccato che anche stavolta – grazie a un deprimente immobilismo – corra il rischio di restare al palo e di farsi travolgere. Come fu nel 1994; come fu nel 2006, quando una vittoria di Pirro anticipò la batosta di due anni dopo. Della quale fu parte non secondaria la scomparsa della Sinistra sinistra dalle aule parlamentari. Come se non bastasse, questi tre anni e mezzo di esilio non sono bastati alla Sinistra sinistra per riflettere, riorganizzarsi, ma sono stati motivo di lite e rancore fra gli esuli, che oggi appaiono irrimediabilmente divisi in direzioni centrifughe.

Quanto alla Sinistra centrosinistra, non sembra inverosimile un’ipotesi ancora peggiore: che per lei il senso delle cose sia proprio di aspirare a un presunto ruolo di comprimaria dentro il nuovo quadro cui altri stanno lavorando.
Ma si sa, il pessimismo della ragione è congeniale all’ottimismo della volontà. Speriamo che valga anche adesso.


sabato 9 luglio 2011

Paradigma Valsusa


Come l’odissea aquilana del terremoto e del post-terremoto, così l’annosa vicenda dell’opposizione valsusina al progetto di Alta Velocità rappresenta la storia emblematica di una comunità e di un territorio, di una lotta corale per sopravvivere contro lo stravolgimento ambientale e antropologico causato dagli esseri umani (e non dalla natura). Una lotta cui il resto d’Italia e del mondo assiste guardando le immagini televisive, ma il cui significato travalica quello di una vertenza circoscritta e non ha nulla a che fare con quel capriccio localistico, con il quale la si vorrebbe etichettare (della serie: i soliti ambientalisti, quattro montanari, contrari al progresso, «non nel mio cortile» e via dicendo).

Questa storia è un paradigma. Lo è prima di tutto per il mastodontico meccanismo di affari che è stato messo in moto – secondo modalità diverse in ciascuno dei casi, ma con un intento consimile di conseguire la privatizzazione di un habitat – e che ha reso via via indispensabili al raggiungimento del proprio fine, in Val di Susa come a L’Aquila, la compartecipazione dei vertici politici a vari livelli, la manipolazione dell’informazione, la militarizzazione del territorio. Ed è una vicenda paradigmatica, d’altronde, anche per la risposta popolare che ha suscitato: l’auto-organizzazione, la pratica della democrazia di base, la produzione di contro-informazione, nonché la condivisione più o meno attiva da parte delle istituzioni comunali, quelle più aderenti alle istanze della cittadinanza.

Soltanto la tenuta di un movimento civico di questa portata ha permesso di mantenere vigile l’attenzione sugli attentati al territorio e alla democrazia che si stanno perpetrando in Valsusa, e di bucare a tratti il video di un’informazione addomesticata. Così, per esempio, il governatore della Liguria – una delle regioni teoricamente più interessate al progetto Tav – nonché ex ministro dei trasporti, ha dovuto affermare qualche giorno fa che si tratta di un’opera inutile. Così, a quasi una settimana dalla manifestazione del 3 luglio, va sgonfiandosi la montatura black bloc (per non dire della roboanti farneticazioni di «tentato omicidio»). La stessa polizia dichiara adesso di usare il termine black bloc per riferirsi a chiunque adotti certi comportamenti, a prescindere da come si veste.

In molti interventi (su carta stampata, su Youtube, sui siti internet) i No Tav valsusini hanno spiegato che i black bloc non esistono, che a scontrarsi con la polizia sono stati i loro giovani (o anche i loro anziani); e hanno raccontato come si sono svolti i fatti, come è accaduto che i cortei marciando lungo i sentieri di montagna – con il loro seguito di cinquantenni e di famiglie – siano arrivati dove si proponevano di arrivare, di fronte all’autostrada, sopra al contestato cantiere, a contatto con l’acre fumo dei lacrimogeni. In ogni caso, ci sono alcuni arrestati, la magistratura è all’opera e anche i collegi legali. Vedremo come andranno le cose.

Peraltro, che in Valsusa quel giorno vi fossero manifestanti venuti da varie parti d’Italia è davvero la scoperta dell’acqua calda. Non ne avevano forse diritto? Non è diventata la protesta dei No Tav un movimento che riscuote solidarietà anche fuori di quello stretto lembo di terra incastonato fra le Alpi? E poi, certo, fra i giovani (valsusini e non) ve ne sono di quelli che concepiscono un’opposizione militante contro le «zone rosse», considerandole la punta avanzata della moderna espropriazione dell’ambiente, delle risorse, della democrazia. Forse che questa analisi è totalmente infondata?

Da parte nostra, abbiamo maturato un convincimento nonviolento: perché pensiamo che la nonviolenza, il disarmo, siano presupposto indispensabile di un nuovo progetto di società; ma anche perché ci sembra illusorio e controproducente credere di vincere con la forza contro chi ha il monopolio della forza. Eppure, noi sappiamo anche distinguere chi e che cosa è all’origine della violenza. Chi occupa un’antica e popolosa valle con cantieri invasivi, gestiti da imprese non trasparenti, per realizzare una speculazione dai costi insopportabili, invisa alla popolazione, e presidia questi cantieri con battaglioni di poliziotti, e alimenta la disinformazione sullo stato di cose reale – chi fa questo comunica un inequivocabile messaggio di violenza e di sopruso, di cui dovrebbe essere ritenuto responsabile.


venerdì 1 luglio 2011

Dieci anni dopo il movimento

Nell’imminenza del decennale, in molte città italiane vengono rievocati i giorni del G8 di Genova 2001, le manifestazioni promosse dal Genoa Social Forum, la repressione poliziesca che costò la vita a Carlo Giuliani (20 luglio) e culminò nell’aggressione alla scuola Diaz (notte del 21-22 luglio). Anche in Puglia si tengono incontri; a Bari un gruppo di militanti e studiosi ha promosso una giornata seminariale presso la casa dei missionari comboniani (a suo tempo protagonisti di quello che fu battezzato «movimento dei movimenti»).

Dalla regione del tacco vi fu un massiccio afflusso verso la lontana Genova: si ricordano «i mille» che salirono sul treno speciale per la manifestazione del 21 luglio; senza contare quelli che ci andarono con altri mezzi, e i molti che vi si trovavano già dai giorni precedenti.
Noi eravamo fra «i mille» e vogliamo dare un piccolo contributo di testimonianza, un tassello per la memoria collettiva.

Eravamo saliti in treno, la sera del 20, con l’angoscia nel cuore. La morte di Carlo Giuliani, nel pomeriggio, aveva fatto precipitare nell’incubo le pacifiche giornate del forum antiglobalizzazione. Ma speravamo che di fronte a un grande corteo di decine di migliaia di persone – tante ne erano previste per la manifestazione conclusiva di domenica 21 luglio – la furia aggressiva della polizia si sarebbe fermata. La notte trascorse in dormiveglia, fra canzoni e chiacchierate in vagoni gremiti. Sul treno speciale, partito da Lecce, salivano manifestanti in quasi tutte le città pugliesi della linea adriatica.
Arrivammo a Genova di mattina presto in una stazione periferica a est (Quarto: che curioso, proprio là dove erano partiti quegli altri Mille). Era una calda giornata di sole. La stazione e le strade erano piene soltanto di manifestanti; nessun altro si vedeva in giro, tutto era chiuso e non c’era nemmeno la polizia. Man mano che ci incamminavamo in corteo verso ovest, seguendo la costa del mare, prendevamo coraggio; striscioni, colori, i tanti volti di una moltitudine che si andava ingrossando, compagni/e che si incontravano abbracciandosi: tutto questo ci rincuorava, comunicava un senso di forza. Mentre ci avvicinavamo alla zona centrale, incominciarono a giungere notizie frammentarie di cariche della polizia.

Iniziammo a vedere davanti a noi il fumo dei lacrimogeni, mentre sui telefonini venivamo chiamati da chi seguiva i notiziari. Il nostro spezzone di corteo fu fatto deviare su corso Torino, il lungo rettifilo verso nord; fazzoletti in mano, ci lasciammo alle spalle i lacrimogeni e le cariche. In realtà l’insieme della manifestazione era così grande che le cariche riuscirono a disperderne solo alcuni pezzi. Procedemmo ordinatamente come se fossimo noi l’unico e vero corteo, e finalmente vedemmo i genovesi che ci salutavano dai balconi e ci rifornivano di acqua.
Giunti in fondo a corso Sardegna, ci sciogliemmo spontaneamente. Non sapevamo che fare, e che cosa esattamente stesse succedendo alle nostre spalle. Alcuni di noi formarono un drappello che – come tanti altri in modo diverso – decise di provare a raggiungere la stazione di Brignole, al centro, da dove saremmo dovuti ripartire per tornare in Puglia. Attraversato il fiume Bisagno su un ponte nella zona di Marassi, incominciammo a percorrere il lungofiume verso sud, mentre la polizia sbarrava minacciosamente gli altri ponti. Nel tardo pomeriggio arrivammo sul piazzale di Brignole, dove si andavano concentrando i manifestanti che dovevano salire sui vari treni. Colonne di mezzi della polizia sfrecciavano là davanti, in trasferta chi sa da dove verso dove, in mezzo a salve di fischi e urla. Nella stazione furono allestiti dal Social Forum posti di distribuzione di panini e acqua, letteralmente circondati come in un assedio.

Eravamo affamati e assetati, in città non avevamo trovato neppure un bar aperto. Una folla stremata e arrabbiata occupava i marciapiedi lungo i binari. Vi fu l’assalto ai treni, e finalmente partimmo. Il viaggio notturno fu trascorso fra racconti eccitati, ancora canzoni, sonni interrotti. All’alba, mentre i vagoni sferragliavano lungo l’Adriatico, ci raggiunsero sui telefonini, da Genova, le prime notizie di ciò che era accaduto nella notte: la «macelleria messicana» della scuola Diaz.

Non sapremmo dire se il luglio 2001 fu un punto di arrivo e di crisi del movimento no global – la novità più significativa dei nostri tempi, prima delle rivolte arabe – o piuttosto un inizio. La stagione del World Social Forum proseguì ancora per qualche anno con incontri mondiali. In Italia, il 2002 fu l’anno di due grandi manifestazioni permeate dallo spirito del movimento antiliberista: quella della Cgil del 23 marzo a Roma, in difesa dello statuto dei lavoratori (proprio la Cgil, che aveva fatto mancare la sua adesione al movimento di Genova) e quella pacifista di Firenze del 9 novembre. Nel 2002-2003 le bandiere della pace sventolarono da molti balconi italiani, perfino nelle chiese. In tutto il pianeta il movimento pacifista, «seconda potenza mondiale» (scrisse allora il «New York Times») raggiunse il suo apice, poco prima della guerra in Iraq. Fu allora, probabilmente, che si chiuse la fervida stagione del movimento no global. Restavano i semi sparsi, e anche la Primavera Pugliese ne raccolse qualcuno.


lunedì 27 giugno 2011

Destra e Sinistra

Fa piacere che un tema su Destra e Sinistra sia stato proposto agli esami di maturità. Chi sa se, nascosto tra le sparse “rose” predisposte da una commissione ministeriale, è stato ripescato soltanto dopo le elezioni e i referendum. L’attualità è innegabile: molti tornano a porsi questo interrogativo – che cos’è veramente la Destra, che cosa la Sinistra – ora che in Italia una particolare destra, quella berlusconiana, è in crisi, e una particolare sinistra, tuttora indefinita nei suoi contorni, è spinta dallo stato di cose a doversi offrire come guida del Paese in un futuro più o meno prossimo.

Il saggio di Norberto Bobbio – il testo più importante prescelto come supporto al tema d’esame – afferma che il discrimine fra le due opposte culture politiche è il concetto di uguaglianza (valore fondante per la Sinistra ma non per la Destra) e che in entrambe le collocazioni i “moderati” apprezzano il valore della libertà, gli “estremisti” propendono per soluzioni illiberali (autoritarie, statalistiche, dirigistiche). Ma uno scritto pubblicato nel 1994, pur se ricco di spunti suggestivi, è insufficiente a dar conto di ciò che è avvenuto nei 17 anni seguenti.

La destra in carica ha amato proclamarsi moderata, paladina “delle libertà” (al plurale), segnatamente delle libertà economiche, della proprietà privata, dell’emancipazione dalle tasse (fino all’evasione legalizzata) e dell’affrancamento del Nord produttivo dal parassitismo meridionale. Ma ha basato le sue fortune su una commistione oligarchica fra potere politico e monopolio dei mass media. Ha perseguito l’accentramento di poteri nell’esecutivo (anzi, nel premier), a discapito del Parlamento, della Presidenza della Repubblica e della Magistratura. Ha favorito leggi limitative dei diritti delle donne, dei lavoratori, degli immigrati.

Dov’è la destra moderata, liberale e libertaria? Forse è rappresentata occasionalmente da qualcuno che si autodefinisce “centrista”, dal “Terzo Polo”, magari dai radicali o da una parte del centrosinistra. Poca cosa. In realtà le sorti della cosiddetta Seconda Repubblica sono state finora in mano a una destra estrema, radicale, dalla vocazione profondamente anticostituzionale.
Quanto alla sinistra, ci sembra che l’ultimo ventennio sia andato, per così dire, perfezionando l’incomunicabilità fra una sinistra “di governo” e una sinistra “di lotta”. Non c’è più ombra del berlingueriano «partito di lotta e di governo» (che fra l’altro, al governo nazionale non ci andò mai) visto il fallimento della sua versione aggiornata e friabile, quella bertinottiana, che voleva rendere il governo Prodi «permeabile ai movimenti».

C’è una sinistra che preferisce chiamare se stessa «centrosinistra»: una forza a vocazione governativa, responsabile, moderata, pronta a far proprie le istanze della destra centrista, e talvolta – se è il caso – anche della destra destra. Questa area politica mantiene le distanze da movimenti, sindacati, associazioni; è spesso in aperto contrasto con i conflitti che questi promuovono. Con i quali, viceversa, si identifica la sinistra che lotta, sempre meno insediata in uno spazio politico-istituzionale, ma capace di sopravvivere o di rinascere nelle esperienze di base, nelle vertenze sindacali e ambientaliste, nei comitati referendari e via dicendo.

Poiché crediamo che la definizione di Sinistra individui le forze del cambiamento storico – quelle che vogliono trasformare la società, non lasciando immutati i rapporti di forza esistenti, allargando la sfera dei diritti e dei soggetti che vi hanno accesso – siamo anche convinti che il compito della Sinistra sia da sempre il più difficile: cambiare davvero lo stato di cose presente. Nelle sue espressioni appropriate, la Sinistra è un movimento della società, un insieme di soggetti di massa che si organizzano per essere meno deboli, ed è un laboratorio che progetta utopie sociali e nuove dinamiche democratiche. Riesce a produrre rivoluzioni, accelerazioni politiche, ma non ha ancora dimostrato di saperne gestire gli esiti.

La Destra invece ha sempre familiarizzato – per dirla con Franco Cassano – con «l’umiltà del Male»; con la suadente egemonia del buon senso che accetta l’imperfezione del mondo e ne racconta l’immutabilità, o ammette solo le modificazioni lente, di lungo periodo, perpetuanti il predominio dei Gattopardi. E così, oggi che il vasto potere berlusconiano – a suo modo, un regime – è al tramonto, e lo è grazie anche ai movimenti della sinistra che lotta, non siamo certi che sarà la sinistra di governo a dare uno sbocco alla crisi. Forze cospicue e versatili sono già all’opera per impedire o depotenziare un esito di questo segno.

Paradossalmente, mentre un leader della sinistra di governo raddrizza oggi la barra cercando tardivamente un rapporto con la sinistra che lotta, un altro volge lo sguardo all’elettorato destrorso, spiegando candidamente che una realistica alternativa non può essere di sinistra. Per parte nostra, speriamo in un punto di equilibrio avanzato fra sinistra di governo e sinistra di lotta. Altrimenti, qualunque cosa verrà, sarà forse più liberale (ci auguriamo), ma non sarà una cosa di sinistra.


venerdì 17 giugno 2011

Segnali di fumo

Il terremoto referendario del 12-13 giugno è stato già analizzato da miriadi di commenti. E ancora nell’immediato futuro stimolerà – ci auguriamo – una riflessione profonda. Per parte nostra, in questa grande e confortante prova di democrazia, che spazza via gli incubi depressivi durati troppo a lungo rafforzando lo stato di buon umore già originato dalle elezioni amministrative, vogliamo rilevare qui un solo dato: quello di un risveglio che definiremmo come una sorta di “ritorno alla normalità”.

La forza trainante del quorum è venuta dalle antiche regioni rosse (Emilia 64%, Toscana 63,6%, Marche 61, 6%), sorpassate soltanto dal Trentino Alto Adige (64, 6%), cui si aggiungono le alte percentuali delle regioni del Nord, tutte al di sopra della media nazionale (54,8%), in particolare della Valle d’Aosta (61%), del Piemonte, della Liguria e del Veneto (tutti e tre al 59% come l’Umbria). Al di sopra della media nazionale si collocano, fra le regioni centro-meridionali, il Lazio, la Sardegna, l’Abruzzo, il Molise (tutti intorno al 58%), mentre la Basilicata (54%) è di poco sotto la media. Fanalino di coda sono quattro regioni meridionali, abbondantemente sotto la media nazionale anche se per fortuna sopra il quorum: Sicilia (52,7%), Puglia (52,5%), Campania (52,28%), Calabria (50,4%).

La Puglia è terzultima. Non è molto, per una regione che doveva essere «la testa d'ariete contro gli impianti atomici» (parole del Governatore). Ma è un bene che la sinistra pugliese riacquisti il senso delle proporzioni, ove mai avesse rischiato di perderlo. Che, cioè, si accorga – nonostante le positività dell’azione di governo nella Regione, a Bari e in altri comuni – che il laboratorio della politica e la spinta dei movimenti, almeno per ora, sono altrove.

Nei territori pugliesi un diverso progetto di governo condiviso e partecipato deve ancora trovare il suo radicamento sociale. Capita a proposito la discussione sul libro di Onofrio Romano, La fabbrica di Nichi. Comunità e politica nella postdemocrazia, con prefazione di Franco Cassano (Laterza, Bari, 2011), che è stato presentato pochi giorni fa a Bari, nella libreria Laterza. In verità il saggio di Romano sta facendo discutere già da mesi, essendo stato pubblicato in precedenza su «Democrazia e diritto» e diffuso elettronicamente (l’edizione in volume ha solo poche aggiunte).

La novità è invece la qualità e la quantità della partecipazione dell’altro giorno, che ricordava certe assemblee – quelle di Città plurale, per esempio, ma non solo – nei momenti aurorali della Primavera Pugliese (2003-2005). La tesi fondamentale dell’autore – cui il pubblico ha riservato un ascolto attento e dialogante – è che le «fabbriche di Nichi», da lui studiate nella loro dinamica, siano un’esperienza post-democratica o meglio ancora a-democratica: infatti la pur ricca ed effervescente fenomenologia di iniziative e di creatività giovanile che vi si è espressa non ha mai incontrato il livello della decisione politica, situato in una sfera separata ed esclusiva, facente capo alla stretta cerchia vendoliana. Da questo punto di vista, le «fabbriche» non solo la soluzione del problema – la crisi delle forme di partecipazione democratica – ma una manifestazione dello stesso. Un modello tutt’altro che generalizzabile; i cui limiti del resto sono risultati evidenti.

Insomma, dobbiamo guardare ai recenti segnali di fumo come a una pluralità di indicazioni dai territori, a molte e diversificate esperienze, per cercare di intuire che forma prenderà la democrazia politica in un futuro più o meno prossimo; per capire come, e se, la sinistra sarà vivificata da questo processo; per accompagnare armoniosamente un percorso. Confessiamo di non nutrire un facile ottimismo. I movimenti, i comitati di scopo, la rete – realtà autenticamente partecipative – hanno dimostrato di funzionare per i referendum. Ma di qui a determinare le condizioni di una coalizione nazionale capace di vincere le elezioni politiche, ce ne corre. E quando si vince, si vince per lo più in maniera rocambolesca, contorta; incominciano allora i veri problemi e gli scivolamenti rovinosi verso durature sconfitte.

Guardiamo intanto con interesse all’iniziativa di raccolta di firme per abrogare la legge elettorale vigente. Battiamo il ferro ancora caldo: dubitiamo che vi sia una forza politica seriamente intenzionata a cambiare in parlamento una legge che fa molto comodo. Coltiviamo il protagonismo dei movimenti. E vediamo quali indicazioni verranno dai due poli di attenzione politica che si sono imposti: Milano e Napoli. Due esperienze molto diverse, come si comprende già dalla formazione delle due giunte comunali.

A Milano si intravede il grande lavoro di cucitura e di mediazione che ha portato il sindaco di sinistra, l’«estremista», e lo stesso Pd a porsi anche come garanti di una parte significativa della borghesia e del centrismo. A Napoli si assiste alla corsa solitaria, che ha qualcosa di avventuroso, di un governo bicolore (Italia dei Valori e Rifondazione) che non trova riscontro altrove, mentre Pd e Sel sono rimasti tramortiti dalla caduta da sinistra del bassolinismo. Facciamo gli auguri a entrambe le giunte; in particolare, se ci è consentito, al neo vicesindaco di Napoli, Tommaso Sodano, assessore all’ambiente, ex presidente della commissione ambiente del Senato, a cui tocca la sfida più rischiosa, quella di una «missione impossibile».


venerdì 10 giugno 2011

Buio mediterraneo

Sarebbe saggio dismettere il cliché che raffigura il Mediterraneo come spazio solare dell’incontro, della contaminazione culturale, dell’accoglienza. Non perché il Mediterraneo non sia stato, a volte, “anche” questo. Non perché non sia bello coltivare l’utopia della convivialità mediterranea – quella raccontata da Predrag Matvejevic e da Franco Cassano – rintracciando sapori e pensieri salutari che intersecano i modi di vivere sulle sponde dell’antico mare. Ma perché sarebbe saggio prendere atto che da troppo tempo questo è un mare di naufragio e di morte. Lo è non per fatalità o per colpa delle burrasche, di Scilla e Cariddi, del canto delle sirene, ma per responsabilità di esseri umani; per quella concatenazione perversa di fattori umani – scelte, decisioni, azioni politiche – che chiamiamo globalizzazione, divario Nord-Sud, eredità del colonialismo, «guerra umanitaria», «contrasto all’immigrazione clandestina» e via dicendo.

Ma l’Italia, lunga banchina portuale della fortezza-Europa protesa sotto il sole del mare nostrum, in questi casi preferisce la nebbia.
Qualche giorno fa la tragedia degli oltre duecento dispersi di un barcone tunisino – ne sono stati recuperati in mare alcuni corpi – ha stimolato le allarmate considerazioni di Claudio Magris e del Presidente Napolitano a proposito dell’indifferenza con cui la nostra opinione pubblica riceve (e ignora) notizie come queste – quel poco che trapela di una realtà duratura. Ci sembra peraltro sbagliato scaricare tutte le colpe sugli scafisti criminali come se fossero la causa del fenomeno e non l’effetto. Se la risposta a un bisogno insopprimibile, quello di emigrare, è una legge che rende clandestini quasi tutti coloro che emigrano, ed equipara clandestini e delinquenti, non si elimina il fenomeno: si ottiene un corto circuito (voluto?) che consegna i migranti agli imprenditori dell’immigrazione illegale.

Ma quel che più colpisce è la tendenza a rimuovere, mettere tra parentesi, derubricare questi fatti come secondari o episodici benché dolorosi. A elaborare mitologie consolatorie e mistificanti, come il luogo comune degli italiani «accoglienti» (lo stesso che ha generato la dizione giornalistica di «centri di accoglienza» per indicare i centri di detenzione dei clandestini in procinto di essere espulsi). Da questa distorsione non è immune la Puglia. Per esempio, è davvero singolare che lo storico approdo della nave Vlora carica di oltre quindicimila albanesi (agosto 1991: ne ricorre quest’anno il ventennale) sia stato fissato a Bari nella memoria convenzionale come un avvenimento drammatico, sì, del quale però si celebra soprattutto il valore dell’accoglienza da parte dei baresi. In questo caso l’«utopia» partorisce l’«ucronia» («descrizione di un avvenimento sulla base di dati immaginari»). Il soccorso dei baresi ci fu, è vero, ma non bastò a cambiare le decisioni del governo e il senso dell’evento: la marea umana fu reclusa nello stadio della Vittoria in condizioni di spaventoso disagio, quindi deportata e rimpatriata con un ponte aereo. «Accoglienza» parrebbe una sintesi alquanto impropria (ucronica).

E ancora. Circa dieci anni fa si parlò di candidare il Salento al premio Nobel per la pace, grazie allo spirito di ospitalità dimostrato dalle sue popolazioni. Peccato che nel frattempo l’esempio giornalistico di quella ospitalità, il Regina Pacis, si andasse trasformando in un centro di detenzione dove si intrecciavano affarismo e violenza. Non dobbiamo dimenticare condizioni che non sarebbero adeguatamente conosciute senza il lavoro di reporter audaci, quali la semischiavitù dei clandestini impiegati come braccianti stagionali nel Foggiano. E davanti alla costa di Brindisi si è consumata nel 1997 la più letale aggressione militare perpetrata contro un battello di migranti: l’affondamento della Kater i Rades speronata da una nave della marina italiana (81 cadaveri recuperati, nessun militare rinviato a giudizio). Al governo non c’era l’orrido Leghista – che ogni giorno minaccia di prendere a cannonate le carrette del mare – ma il centrosinistra. Da parte loro, soprattutto (ma non solo) i governi di destra hanno incrementato l’abuso della Apulia felix come retrovia dove concentrare Cie (centri di identificazione ed espulsione) e Cara (i campi per i richiedenti asilo), e dove sperimentare entità indefinibili, fantasmi giuridici come la recente tendopoli di Manduria.

Certo la Puglia non è solo questo. È anche un’onesta legge regionale sull’immigrazione. È la solidarietà di associazioni che operano senza clamori. È l’impegno di scuole che aprono le aule ai figli di clandestini (le leggi lo prevedono, ma sono molti i modi per eluderle). Segni di un umanesimo alieno da ipocrisia, che si può incontrare qua e là in tutta Italia, in qualche istituzione locale, sparso fra medici, operatori sociali, religiosi e semplici cittadini. Ma sarebbe serio evitare l’autocompiacimento e l’autoassoluzione. In Italia sono in vigore norme sull’immigrazione che la stessa Europa ha giudicato lesive del diritto; chi ha provato veramente a cambiarle? In questo Paese di frontiera non esiste una legge specifica sull’asilo. E per gli “ospiti” che bene o male rimangono, accoglienza, integrazione, pari opportunità sono per lo più miraggi da inseguire. È ancora buio sul nostro Mediterraneo.


venerdì 3 giugno 2011

Le città restano

«Gli stati passano, le città restano». Il motto di Giorgio La Pira torna in mente quando si celebrano i 65 anni della nostra giovane Repubblica, per di più nel 150° anniversario dell’Italia unita; l’Italia dei cento municipi, tutti più antichi di lei. E si mescola all’impressione prodotta dalla scossa elettorale di qualche giorno fa.
Un risultato che – lo hanno detto in molti – assomiglia a quello del 1993, quando la sinistra conquistò grandi città. Si votava allora per la prima volta con il sistema di elezione diretta del sindaco. E a vincere fu proprio la sinistra, non il centrosinistra: Rutelli (Verdi) a Roma, Bassolino (Pds) a Napoli; e poi atipici di sinistra, Cacciari a Venezia e Orlando a Palermo. Appena un anno dopo, nelle elezioni politiche con sistema maggioritario che inauguravano la Seconda Repubblica, il partito berlusconiano inventato in un batter d’occhio sgominò la baldanzosa coalizione dei Progressisti – la «macchina da guerra» di Achille Occhetto – che si era presentata separatamente dagli ex democristiani. Ci vollero altri due anni per far nascere la prima edizione di quello che oggi chiamiamo centrosinistra.

Ma una consimile analogia dovrebbe essere istituita con il 1975, l’anno della clamorosa vittoria amministrativa del Pci, che con il vecchio sistema elettorale proporzionale arrivò a insediare propri sindaci a Roma, Torino, Napoli e in altre città. Un trionfo che, tuttavia, non propiziò l’auspicato “sorpasso” nelle elezioni politiche di un anno dopo: il Pci ottenne il 34% dei voti, ma anche la Dc aumentò i suffragi. Ne nacque uno stallo; donde l’astensione comunista sul governo Andreotti. La situazione si avviò poi sulla china rovinosa che sappiamo.
Una cosa è certa. Da quattro decenni la sinistra – al di là delle regioni del suo insediamento storico – entra in sintonia più facilmente con le città grandi e medie, e quasi sempre ha giocato le sue migliori carte nelle competizioni comunali. Sarà perché nelle concentrazioni urbane si trovano più che altrove fasce di lavoro dipendente sindacalizzato, ceti professionali tendenzialmente progressisti, circuiti culturali dinamici, attive presenze giovanili, e magari gli stranieri che arricchiscono le idee. Intorno a questi nuclei si sono aggregati settori di opinione variegati a seconda dei momenti storici, consentendo alla sinistra di conquistare la maggioranza e, talvolta, di vincere in territori più ampi, province e regioni con cui non era tradizionalmente in armonia.

Anche la Primavera Pugliese è nata nel 2004, quando il Tacco d’Italia sembrava un incrollabile feudo della destra: un nuovo movimento di partecipazione seppe mettere a frutto la sensibilità civica maturata nel capoluogo, eleggendo sindaco Michele Emiliano, e un anno dopo, propagandosi nella regione, portò alla guida della Puglia il «sovversivo» Nichi Vendola. Certo, vi fu il concorso di fattori esterni quali i fallimenti e le debolezze della destra. Così oggi nel risultato amministrativo c’è la disaffezione verso il berlusconismo, incrementata dai movimenti di protesta dell’ultimo anno. C’è la scoperta di quanto povera e desolante sia la cultura di governo locale della destra: quella che ha impedito al Pdl di mietere successi a Napoli, come la logica e i mezzi avrebbero comportato; quella propaganda leghista asfittica, da Deserto dei Tartari, che per esempio ha ridotto la seconda città del Piemonte (Novara) a un triste borgo di provincia. Ma non si vince senza una forza soggettiva, che nasce quando c’è una medesima lunghezza d’onda fra i candidati, gli aggregati politici che li esprimono e settori di cittadinanza tanto motivati da diventare trainanti. Questo è successo a Milano e a Napoli, a Cagliari e a Trieste, a Novara e anche a Nardò.

Le città sono i più antichi luoghi della politica (da polis), da sempre laboratori delle trasformazioni e delle rivoluzioni. La lotta e la mediazione, la democrazia e la capacità amministrativa, sono il prodotto di generazioni che in età remote hanno incominciato a misurarsi con i conflitti e con il governo delle società cittadine. Le città non sono caselle che, riempite, ti fanno vincere la tombola. Per costruire una forza vincente sul piano nazionale, la sinistra (che rema sempre controcorrente, anche se spesso si illude che non sia così) deve portare a sintesi una grandissima complessità risultante da molte diversità. Perciò – salvo che non s’innamori di una ricerca del consenso che non le appartiene, quella puramente mediatica – deve guardare alle città (e in differente misura alle regioni) come a preziose scuole della politica.

Due grandi capitali, del Nord e del Sud, al termine di una battaglia che ha suscitato entusiasmo e stupore, si sono riappropriate di un ruolo storico. Hanno imposto come termine di confronto l’esperienza di una rete di solidarietà e di intelligenze in grado di creare egemonia (Milano), e la capacità di intercettare con straordinario tempismo un bisogno popolare di rinnovamento (Napoli). E c’è un’altra conseguenza: l’«anomalia pugliese» ha fatto il suo tempo. Ne è stata archiviata la mitologia espansionistica: le riprove sono da un lato la sua ininfluenza nel cataclisma napoletano, dall’altro la voce dal sen fuggita a Vendola, prontamente stoppata da Pisapia. Milano si è liberata da sola, semplicemente perché ne aveva le forze.


sabato 28 maggio 2011

Resistenza sconosciuta

Come si sa, una folata “revisionista” aleggia sulla storia della Resistenza. Un’offensiva, supportata da ripetuti interventi giornalistici, politici e perfino istituzionali. Va da sé che tutto questo non c’entri davvero con il “revisionismo” storiografico. Nulla sorregge l’autentica ricerca storica più della spinta a “rivedere” il passato battendo sentieri inesplorati e svelando angolazioni originali.

Per esempio, il libro di Claudio Pavone uscito vent’anni fa (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991) dibatteva senza inibizioni la categoria storiografica della «guerra civile» – assai ostica, fino a quel momento, per la storiografia di sinistra – con uno studio vasto e documentato dal quale emergeva sorprendentemente arricchita, nella sua concreta sostanza umana, la «moralità» della lotta partigiana. All’opposto, il libro di Giampaolo Pansa apparso otto anni fa (Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano, 2003) è un collage di seconda mano, che mette insieme con sconcertante leggerezza episodi diversi, a proposito dei quali esistono ricostruzioni e documenti di valore disomogeneo, e perciò enfatizza – con lo stile di un pamphlet e non certo di una seria opera storica – le “atrocità” commesse dai partigiani, assunte come elementi sostanziali di una (presunta) nuova interpretazione della storia resistenziale.

L’allargamento e il rinnovamento dei modi di leggere la storia ci sembrano un bisogno vitale. Il sovversivismo storiografico invece non ci interessa: o meglio, lo trattiamo come parte di una battaglia culturale esplicita, come una provocazione ideologica con tratti di teppismo intellettuale, intesa a spacciare per “rivoluzionario” quello che è soltanto un arbitrario capovolgimento dei verdetti. (Da questo punto di vista l’affermazione secondo cui partigiani e fascisti non sono poi dissimili è non meno soggettivistica dell’altra secondo cui lo sterminio degli ebrei non è mai avvenuto).

Un pregevole contributo al rinnovamento storiografico è, invece, costituito dal recente libro di Andrea Martocchia, I partigiani jugoslavi nella resistenza italiana (Odradek, Roma, 2011), che si avvale della collaborazione di altri studiosi, fra i quali Gaetano Colantuono, curatore del capitolo sulla Puglia.

Una documentazione di prima mano, raccolta da entrambe le sponde dell’Adriatico, porta alla luce una realtà storica finora sottovalutata se non ignorata: il contributo sostanzioso che alla guerra contro il nazifascismo in Italia dettero migliaia di iugoslavi, internati nei campi di prigionia fascisti, liberatisi dopo l’8 settembre e confluiti nella Resistenza, alla quale parteciparono o, in alcuni casi, dettero inizio, favorendo la formazione di gruppi di combattenti italiani. Una presenza che si mostra cospicua nella dinamica della guerra partigiana in Toscana, Abruzzo, Marche; le tombe di oltre 2.300 caduti iugoslavi sono sparse nei cimiteri italiani. Particolare è il caso della Puglia (dove pure esistevano campi di internamento), che, fra le prime regioni liberate, diventa una retrovia strategica della guerra antinazista, a disposizione non solo degli Anglo- americani, ma anche dell’esercito jugoslavo, partner indispensabile per la vittoria in Europa.

Nascono centri di reclutamento e addestramento degli ex prigionieri e profughi jugoslavi, militari e civili, strutture di assistenza e ospedali, disseminati in tutta la Puglia, dal Foggiano al Barese al Salento; lo stesso Tito arriva a Bari per incontrare gli alti comandi alleati. Il quadro storico della Puglia come crocevia internazionale, e della infrastruttura pugliese nella sua funzione cruciale per l’ultima fase della guerra, viene da questa ricerca confermato e arricchito di tasselli qualificanti.
Ma il libro di Martocchia ha anche il merito di interrogarsi sulle ragioni dell’opacità storiografica che ha messo in ombra fin da subito il ruolo dei partigiani iugoslavi nella Resistenza italiana.

Su questo argomento non si leggono che pochissime righe nel testo fondativo della storiografia resistenziale, l’epica sintesi di Roberto Battaglia (Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino, 1953). La rimozione è stata il prodotto di un complesso di cause, che discendono dalla catena di conflitti e risentimenti sorti fra Italia e Iugoslavia durante e dopo il fascismo: non solo la controversia di confine nell’area triestina e istriana, che ebbe come epilogo drammatico l’esodo giuliano-dalmata, ma anche l’imbarazzante eredità dell’aggressione fascista alla Iugoslavia, per la quale l’Italia non ha mai riconosciuto i crimini di guerra commessi, né tanto meno ha consentito la punizione dei responsabili; ed è singolare che questa reticenza abbia in qualche modo condizionato la stessa compagine resistenziale nonché gli studi sulla guerra partigiana.

A ciò si aggiungevano gli effetti culturali della rottura fra Stalin e Tito alla fine degli anni ’40, con il conseguente schierarsi del Pci contro i comunisti iugoslavi. Dalla stratificazione degli odii non risolti e spesso irresponsabilmente alimentati – non adeguatamente contrastata da un’interpretazione della Resistenza che tendeva a privilegiarne unilateralmente il carattere “nazionale”, di guerra patriottica – germogliava lo stereotipo di una “razza” ciecamente nazionalista, degli “slavi” naturalmente inclini alla violenza e alla brutalità. Lo sfaldamento della Iugoslavia negli anni ’90, ravvivando i miti delle nazionalità balcaniche inconciliabili, incrementava la dispersione della memoria storica di un Paese che non soltanto si era liberato dai nazifascisti senza l’intervento di armate alleate nel suo territorio, ma era stato decisivo per la sconfitta del nazismo nell’Europa meridionale.


sabato 21 maggio 2011

I misfatti di Pisapia

Un’onda ilare e incontenibile scuote in questi giorni il web e i social network. Migliaia di persone si divertono a inventare le malefatte più strepitose, sordide e inverosimili a carico di Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra a sindaco di Milano. Ovviamente, tutto nasce dalla panzana che il sindaco uscente Letizia Moratti ha sparato nel disastroso (per lei) faccia a faccia televisivo: Pisapia ha rubato un’auto per aiutare i terroristi. Su siti come www.pisapiafacts.it e su varie pagine Facebook si possono leggere sequenze esilaranti di post come questi: «Pisapia ruba il cibo a Fassino. Pisapia non viveva un'emozione così forte (47%) dall'ultima volta che ha rubato una macchina. Pisapia ruba le dentiere alle vecchiette e ci suona le nacchere nei centri sociali. Pisapia è senza cuore perché non aiuta le minorenni bisognose. Piove, Pisapia ladro».
È la manifestazione rincuorante di un’atmosfera mutata dopo il primo turno elettorale del 15 maggio. Fino a una settimana fa il dibattito pubblico e privato s’intonava a coloriture plumbee, la visuale era di tipo catastrofico, e il riso, quando c’era, suonava amaro. Ora sembra che un incantesimo sia infranto. L’aggressione verbale, tipica della strategia comunicativa intimidatoria del berlusconismo, si è rivelata una pistola scarica. E a scoprire il bluff non sono state né le alchimie parlamentari, né le campagne giornalistiche, né le inchieste giudiziarie, bensì il fattore davvero determinante: il voto. Così il popolo del dissenso ha preso coraggio, e ora sommerge le cassandre della destra con i materiali da lancio che sono da sempre i più micidiali: l’ironia, la derisione, la satira.
«Una risata vi seppellirà» è uno degli slogan più celebri del ’68. Prendendolo alla lettera, qualche solone spiegherà che purtroppo non è vero. Invece la satira e la dissacrazione sono il sintomo e la premessa dei cambiamenti. Andare a vedere le carte, rovesciare il gioco dell’avversario, ridicolizzare le sue formule propagandistiche: può diventare una strategia. Ci riuscì la campagna elettorale pugliese di Nichi Vendola nel 2005, con i fortunati slogan di Proforma: «Diverso, Sovversivo, Pericoloso» (che tanto preoccupavano le anime timorose del centrosinistra); un metodo ripreso nel 2010, quando i sagaci comunicatori misero in rima il programma del Governatore della Puglia, che i denigratori accusavano di essere nient’altro se non «un poeta».
Non sappiamo come andrà il ballottaggio a Milano, Napoli, Trieste, Cagliari. Certo è che l’intera partita si è riaperta. Abbiamo buone ragioni per sperare; ragioni che si respirano, per così dire, nel buon umore. Persino l’arroganza del premier – che sequestra cinque canali televisivi nazionali per ammannire i soliti sproloqui contro i comunisti, gli zingari e i centri sociali – se ci indigna, non ci spaventa più. Il Padrone si toglie la maschera e gioca tutte le sue carte per la sopravvivenza. Ma questo è l’ultimo capitolo della storia. Non è detto che l’epilogo ci piacerà, ma per il momento ci stiamo provando gusto.