lunedì 27 giugno 2011

Destra e Sinistra

Fa piacere che un tema su Destra e Sinistra sia stato proposto agli esami di maturità. Chi sa se, nascosto tra le sparse “rose” predisposte da una commissione ministeriale, è stato ripescato soltanto dopo le elezioni e i referendum. L’attualità è innegabile: molti tornano a porsi questo interrogativo – che cos’è veramente la Destra, che cosa la Sinistra – ora che in Italia una particolare destra, quella berlusconiana, è in crisi, e una particolare sinistra, tuttora indefinita nei suoi contorni, è spinta dallo stato di cose a doversi offrire come guida del Paese in un futuro più o meno prossimo.

Il saggio di Norberto Bobbio – il testo più importante prescelto come supporto al tema d’esame – afferma che il discrimine fra le due opposte culture politiche è il concetto di uguaglianza (valore fondante per la Sinistra ma non per la Destra) e che in entrambe le collocazioni i “moderati” apprezzano il valore della libertà, gli “estremisti” propendono per soluzioni illiberali (autoritarie, statalistiche, dirigistiche). Ma uno scritto pubblicato nel 1994, pur se ricco di spunti suggestivi, è insufficiente a dar conto di ciò che è avvenuto nei 17 anni seguenti.

La destra in carica ha amato proclamarsi moderata, paladina “delle libertà” (al plurale), segnatamente delle libertà economiche, della proprietà privata, dell’emancipazione dalle tasse (fino all’evasione legalizzata) e dell’affrancamento del Nord produttivo dal parassitismo meridionale. Ma ha basato le sue fortune su una commistione oligarchica fra potere politico e monopolio dei mass media. Ha perseguito l’accentramento di poteri nell’esecutivo (anzi, nel premier), a discapito del Parlamento, della Presidenza della Repubblica e della Magistratura. Ha favorito leggi limitative dei diritti delle donne, dei lavoratori, degli immigrati.

Dov’è la destra moderata, liberale e libertaria? Forse è rappresentata occasionalmente da qualcuno che si autodefinisce “centrista”, dal “Terzo Polo”, magari dai radicali o da una parte del centrosinistra. Poca cosa. In realtà le sorti della cosiddetta Seconda Repubblica sono state finora in mano a una destra estrema, radicale, dalla vocazione profondamente anticostituzionale.
Quanto alla sinistra, ci sembra che l’ultimo ventennio sia andato, per così dire, perfezionando l’incomunicabilità fra una sinistra “di governo” e una sinistra “di lotta”. Non c’è più ombra del berlingueriano «partito di lotta e di governo» (che fra l’altro, al governo nazionale non ci andò mai) visto il fallimento della sua versione aggiornata e friabile, quella bertinottiana, che voleva rendere il governo Prodi «permeabile ai movimenti».

C’è una sinistra che preferisce chiamare se stessa «centrosinistra»: una forza a vocazione governativa, responsabile, moderata, pronta a far proprie le istanze della destra centrista, e talvolta – se è il caso – anche della destra destra. Questa area politica mantiene le distanze da movimenti, sindacati, associazioni; è spesso in aperto contrasto con i conflitti che questi promuovono. Con i quali, viceversa, si identifica la sinistra che lotta, sempre meno insediata in uno spazio politico-istituzionale, ma capace di sopravvivere o di rinascere nelle esperienze di base, nelle vertenze sindacali e ambientaliste, nei comitati referendari e via dicendo.

Poiché crediamo che la definizione di Sinistra individui le forze del cambiamento storico – quelle che vogliono trasformare la società, non lasciando immutati i rapporti di forza esistenti, allargando la sfera dei diritti e dei soggetti che vi hanno accesso – siamo anche convinti che il compito della Sinistra sia da sempre il più difficile: cambiare davvero lo stato di cose presente. Nelle sue espressioni appropriate, la Sinistra è un movimento della società, un insieme di soggetti di massa che si organizzano per essere meno deboli, ed è un laboratorio che progetta utopie sociali e nuove dinamiche democratiche. Riesce a produrre rivoluzioni, accelerazioni politiche, ma non ha ancora dimostrato di saperne gestire gli esiti.

La Destra invece ha sempre familiarizzato – per dirla con Franco Cassano – con «l’umiltà del Male»; con la suadente egemonia del buon senso che accetta l’imperfezione del mondo e ne racconta l’immutabilità, o ammette solo le modificazioni lente, di lungo periodo, perpetuanti il predominio dei Gattopardi. E così, oggi che il vasto potere berlusconiano – a suo modo, un regime – è al tramonto, e lo è grazie anche ai movimenti della sinistra che lotta, non siamo certi che sarà la sinistra di governo a dare uno sbocco alla crisi. Forze cospicue e versatili sono già all’opera per impedire o depotenziare un esito di questo segno.

Paradossalmente, mentre un leader della sinistra di governo raddrizza oggi la barra cercando tardivamente un rapporto con la sinistra che lotta, un altro volge lo sguardo all’elettorato destrorso, spiegando candidamente che una realistica alternativa non può essere di sinistra. Per parte nostra, speriamo in un punto di equilibrio avanzato fra sinistra di governo e sinistra di lotta. Altrimenti, qualunque cosa verrà, sarà forse più liberale (ci auguriamo), ma non sarà una cosa di sinistra.


venerdì 17 giugno 2011

Segnali di fumo

Il terremoto referendario del 12-13 giugno è stato già analizzato da miriadi di commenti. E ancora nell’immediato futuro stimolerà – ci auguriamo – una riflessione profonda. Per parte nostra, in questa grande e confortante prova di democrazia, che spazza via gli incubi depressivi durati troppo a lungo rafforzando lo stato di buon umore già originato dalle elezioni amministrative, vogliamo rilevare qui un solo dato: quello di un risveglio che definiremmo come una sorta di “ritorno alla normalità”.

La forza trainante del quorum è venuta dalle antiche regioni rosse (Emilia 64%, Toscana 63,6%, Marche 61, 6%), sorpassate soltanto dal Trentino Alto Adige (64, 6%), cui si aggiungono le alte percentuali delle regioni del Nord, tutte al di sopra della media nazionale (54,8%), in particolare della Valle d’Aosta (61%), del Piemonte, della Liguria e del Veneto (tutti e tre al 59% come l’Umbria). Al di sopra della media nazionale si collocano, fra le regioni centro-meridionali, il Lazio, la Sardegna, l’Abruzzo, il Molise (tutti intorno al 58%), mentre la Basilicata (54%) è di poco sotto la media. Fanalino di coda sono quattro regioni meridionali, abbondantemente sotto la media nazionale anche se per fortuna sopra il quorum: Sicilia (52,7%), Puglia (52,5%), Campania (52,28%), Calabria (50,4%).

La Puglia è terzultima. Non è molto, per una regione che doveva essere «la testa d'ariete contro gli impianti atomici» (parole del Governatore). Ma è un bene che la sinistra pugliese riacquisti il senso delle proporzioni, ove mai avesse rischiato di perderlo. Che, cioè, si accorga – nonostante le positività dell’azione di governo nella Regione, a Bari e in altri comuni – che il laboratorio della politica e la spinta dei movimenti, almeno per ora, sono altrove.

Nei territori pugliesi un diverso progetto di governo condiviso e partecipato deve ancora trovare il suo radicamento sociale. Capita a proposito la discussione sul libro di Onofrio Romano, La fabbrica di Nichi. Comunità e politica nella postdemocrazia, con prefazione di Franco Cassano (Laterza, Bari, 2011), che è stato presentato pochi giorni fa a Bari, nella libreria Laterza. In verità il saggio di Romano sta facendo discutere già da mesi, essendo stato pubblicato in precedenza su «Democrazia e diritto» e diffuso elettronicamente (l’edizione in volume ha solo poche aggiunte).

La novità è invece la qualità e la quantità della partecipazione dell’altro giorno, che ricordava certe assemblee – quelle di Città plurale, per esempio, ma non solo – nei momenti aurorali della Primavera Pugliese (2003-2005). La tesi fondamentale dell’autore – cui il pubblico ha riservato un ascolto attento e dialogante – è che le «fabbriche di Nichi», da lui studiate nella loro dinamica, siano un’esperienza post-democratica o meglio ancora a-democratica: infatti la pur ricca ed effervescente fenomenologia di iniziative e di creatività giovanile che vi si è espressa non ha mai incontrato il livello della decisione politica, situato in una sfera separata ed esclusiva, facente capo alla stretta cerchia vendoliana. Da questo punto di vista, le «fabbriche» non solo la soluzione del problema – la crisi delle forme di partecipazione democratica – ma una manifestazione dello stesso. Un modello tutt’altro che generalizzabile; i cui limiti del resto sono risultati evidenti.

Insomma, dobbiamo guardare ai recenti segnali di fumo come a una pluralità di indicazioni dai territori, a molte e diversificate esperienze, per cercare di intuire che forma prenderà la democrazia politica in un futuro più o meno prossimo; per capire come, e se, la sinistra sarà vivificata da questo processo; per accompagnare armoniosamente un percorso. Confessiamo di non nutrire un facile ottimismo. I movimenti, i comitati di scopo, la rete – realtà autenticamente partecipative – hanno dimostrato di funzionare per i referendum. Ma di qui a determinare le condizioni di una coalizione nazionale capace di vincere le elezioni politiche, ce ne corre. E quando si vince, si vince per lo più in maniera rocambolesca, contorta; incominciano allora i veri problemi e gli scivolamenti rovinosi verso durature sconfitte.

Guardiamo intanto con interesse all’iniziativa di raccolta di firme per abrogare la legge elettorale vigente. Battiamo il ferro ancora caldo: dubitiamo che vi sia una forza politica seriamente intenzionata a cambiare in parlamento una legge che fa molto comodo. Coltiviamo il protagonismo dei movimenti. E vediamo quali indicazioni verranno dai due poli di attenzione politica che si sono imposti: Milano e Napoli. Due esperienze molto diverse, come si comprende già dalla formazione delle due giunte comunali.

A Milano si intravede il grande lavoro di cucitura e di mediazione che ha portato il sindaco di sinistra, l’«estremista», e lo stesso Pd a porsi anche come garanti di una parte significativa della borghesia e del centrismo. A Napoli si assiste alla corsa solitaria, che ha qualcosa di avventuroso, di un governo bicolore (Italia dei Valori e Rifondazione) che non trova riscontro altrove, mentre Pd e Sel sono rimasti tramortiti dalla caduta da sinistra del bassolinismo. Facciamo gli auguri a entrambe le giunte; in particolare, se ci è consentito, al neo vicesindaco di Napoli, Tommaso Sodano, assessore all’ambiente, ex presidente della commissione ambiente del Senato, a cui tocca la sfida più rischiosa, quella di una «missione impossibile».


venerdì 10 giugno 2011

Buio mediterraneo

Sarebbe saggio dismettere il cliché che raffigura il Mediterraneo come spazio solare dell’incontro, della contaminazione culturale, dell’accoglienza. Non perché il Mediterraneo non sia stato, a volte, “anche” questo. Non perché non sia bello coltivare l’utopia della convivialità mediterranea – quella raccontata da Predrag Matvejevic e da Franco Cassano – rintracciando sapori e pensieri salutari che intersecano i modi di vivere sulle sponde dell’antico mare. Ma perché sarebbe saggio prendere atto che da troppo tempo questo è un mare di naufragio e di morte. Lo è non per fatalità o per colpa delle burrasche, di Scilla e Cariddi, del canto delle sirene, ma per responsabilità di esseri umani; per quella concatenazione perversa di fattori umani – scelte, decisioni, azioni politiche – che chiamiamo globalizzazione, divario Nord-Sud, eredità del colonialismo, «guerra umanitaria», «contrasto all’immigrazione clandestina» e via dicendo.

Ma l’Italia, lunga banchina portuale della fortezza-Europa protesa sotto il sole del mare nostrum, in questi casi preferisce la nebbia.
Qualche giorno fa la tragedia degli oltre duecento dispersi di un barcone tunisino – ne sono stati recuperati in mare alcuni corpi – ha stimolato le allarmate considerazioni di Claudio Magris e del Presidente Napolitano a proposito dell’indifferenza con cui la nostra opinione pubblica riceve (e ignora) notizie come queste – quel poco che trapela di una realtà duratura. Ci sembra peraltro sbagliato scaricare tutte le colpe sugli scafisti criminali come se fossero la causa del fenomeno e non l’effetto. Se la risposta a un bisogno insopprimibile, quello di emigrare, è una legge che rende clandestini quasi tutti coloro che emigrano, ed equipara clandestini e delinquenti, non si elimina il fenomeno: si ottiene un corto circuito (voluto?) che consegna i migranti agli imprenditori dell’immigrazione illegale.

Ma quel che più colpisce è la tendenza a rimuovere, mettere tra parentesi, derubricare questi fatti come secondari o episodici benché dolorosi. A elaborare mitologie consolatorie e mistificanti, come il luogo comune degli italiani «accoglienti» (lo stesso che ha generato la dizione giornalistica di «centri di accoglienza» per indicare i centri di detenzione dei clandestini in procinto di essere espulsi). Da questa distorsione non è immune la Puglia. Per esempio, è davvero singolare che lo storico approdo della nave Vlora carica di oltre quindicimila albanesi (agosto 1991: ne ricorre quest’anno il ventennale) sia stato fissato a Bari nella memoria convenzionale come un avvenimento drammatico, sì, del quale però si celebra soprattutto il valore dell’accoglienza da parte dei baresi. In questo caso l’«utopia» partorisce l’«ucronia» («descrizione di un avvenimento sulla base di dati immaginari»). Il soccorso dei baresi ci fu, è vero, ma non bastò a cambiare le decisioni del governo e il senso dell’evento: la marea umana fu reclusa nello stadio della Vittoria in condizioni di spaventoso disagio, quindi deportata e rimpatriata con un ponte aereo. «Accoglienza» parrebbe una sintesi alquanto impropria (ucronica).

E ancora. Circa dieci anni fa si parlò di candidare il Salento al premio Nobel per la pace, grazie allo spirito di ospitalità dimostrato dalle sue popolazioni. Peccato che nel frattempo l’esempio giornalistico di quella ospitalità, il Regina Pacis, si andasse trasformando in un centro di detenzione dove si intrecciavano affarismo e violenza. Non dobbiamo dimenticare condizioni che non sarebbero adeguatamente conosciute senza il lavoro di reporter audaci, quali la semischiavitù dei clandestini impiegati come braccianti stagionali nel Foggiano. E davanti alla costa di Brindisi si è consumata nel 1997 la più letale aggressione militare perpetrata contro un battello di migranti: l’affondamento della Kater i Rades speronata da una nave della marina italiana (81 cadaveri recuperati, nessun militare rinviato a giudizio). Al governo non c’era l’orrido Leghista – che ogni giorno minaccia di prendere a cannonate le carrette del mare – ma il centrosinistra. Da parte loro, soprattutto (ma non solo) i governi di destra hanno incrementato l’abuso della Apulia felix come retrovia dove concentrare Cie (centri di identificazione ed espulsione) e Cara (i campi per i richiedenti asilo), e dove sperimentare entità indefinibili, fantasmi giuridici come la recente tendopoli di Manduria.

Certo la Puglia non è solo questo. È anche un’onesta legge regionale sull’immigrazione. È la solidarietà di associazioni che operano senza clamori. È l’impegno di scuole che aprono le aule ai figli di clandestini (le leggi lo prevedono, ma sono molti i modi per eluderle). Segni di un umanesimo alieno da ipocrisia, che si può incontrare qua e là in tutta Italia, in qualche istituzione locale, sparso fra medici, operatori sociali, religiosi e semplici cittadini. Ma sarebbe serio evitare l’autocompiacimento e l’autoassoluzione. In Italia sono in vigore norme sull’immigrazione che la stessa Europa ha giudicato lesive del diritto; chi ha provato veramente a cambiarle? In questo Paese di frontiera non esiste una legge specifica sull’asilo. E per gli “ospiti” che bene o male rimangono, accoglienza, integrazione, pari opportunità sono per lo più miraggi da inseguire. È ancora buio sul nostro Mediterraneo.


venerdì 3 giugno 2011

Le città restano

«Gli stati passano, le città restano». Il motto di Giorgio La Pira torna in mente quando si celebrano i 65 anni della nostra giovane Repubblica, per di più nel 150° anniversario dell’Italia unita; l’Italia dei cento municipi, tutti più antichi di lei. E si mescola all’impressione prodotta dalla scossa elettorale di qualche giorno fa.
Un risultato che – lo hanno detto in molti – assomiglia a quello del 1993, quando la sinistra conquistò grandi città. Si votava allora per la prima volta con il sistema di elezione diretta del sindaco. E a vincere fu proprio la sinistra, non il centrosinistra: Rutelli (Verdi) a Roma, Bassolino (Pds) a Napoli; e poi atipici di sinistra, Cacciari a Venezia e Orlando a Palermo. Appena un anno dopo, nelle elezioni politiche con sistema maggioritario che inauguravano la Seconda Repubblica, il partito berlusconiano inventato in un batter d’occhio sgominò la baldanzosa coalizione dei Progressisti – la «macchina da guerra» di Achille Occhetto – che si era presentata separatamente dagli ex democristiani. Ci vollero altri due anni per far nascere la prima edizione di quello che oggi chiamiamo centrosinistra.

Ma una consimile analogia dovrebbe essere istituita con il 1975, l’anno della clamorosa vittoria amministrativa del Pci, che con il vecchio sistema elettorale proporzionale arrivò a insediare propri sindaci a Roma, Torino, Napoli e in altre città. Un trionfo che, tuttavia, non propiziò l’auspicato “sorpasso” nelle elezioni politiche di un anno dopo: il Pci ottenne il 34% dei voti, ma anche la Dc aumentò i suffragi. Ne nacque uno stallo; donde l’astensione comunista sul governo Andreotti. La situazione si avviò poi sulla china rovinosa che sappiamo.
Una cosa è certa. Da quattro decenni la sinistra – al di là delle regioni del suo insediamento storico – entra in sintonia più facilmente con le città grandi e medie, e quasi sempre ha giocato le sue migliori carte nelle competizioni comunali. Sarà perché nelle concentrazioni urbane si trovano più che altrove fasce di lavoro dipendente sindacalizzato, ceti professionali tendenzialmente progressisti, circuiti culturali dinamici, attive presenze giovanili, e magari gli stranieri che arricchiscono le idee. Intorno a questi nuclei si sono aggregati settori di opinione variegati a seconda dei momenti storici, consentendo alla sinistra di conquistare la maggioranza e, talvolta, di vincere in territori più ampi, province e regioni con cui non era tradizionalmente in armonia.

Anche la Primavera Pugliese è nata nel 2004, quando il Tacco d’Italia sembrava un incrollabile feudo della destra: un nuovo movimento di partecipazione seppe mettere a frutto la sensibilità civica maturata nel capoluogo, eleggendo sindaco Michele Emiliano, e un anno dopo, propagandosi nella regione, portò alla guida della Puglia il «sovversivo» Nichi Vendola. Certo, vi fu il concorso di fattori esterni quali i fallimenti e le debolezze della destra. Così oggi nel risultato amministrativo c’è la disaffezione verso il berlusconismo, incrementata dai movimenti di protesta dell’ultimo anno. C’è la scoperta di quanto povera e desolante sia la cultura di governo locale della destra: quella che ha impedito al Pdl di mietere successi a Napoli, come la logica e i mezzi avrebbero comportato; quella propaganda leghista asfittica, da Deserto dei Tartari, che per esempio ha ridotto la seconda città del Piemonte (Novara) a un triste borgo di provincia. Ma non si vince senza una forza soggettiva, che nasce quando c’è una medesima lunghezza d’onda fra i candidati, gli aggregati politici che li esprimono e settori di cittadinanza tanto motivati da diventare trainanti. Questo è successo a Milano e a Napoli, a Cagliari e a Trieste, a Novara e anche a Nardò.

Le città sono i più antichi luoghi della politica (da polis), da sempre laboratori delle trasformazioni e delle rivoluzioni. La lotta e la mediazione, la democrazia e la capacità amministrativa, sono il prodotto di generazioni che in età remote hanno incominciato a misurarsi con i conflitti e con il governo delle società cittadine. Le città non sono caselle che, riempite, ti fanno vincere la tombola. Per costruire una forza vincente sul piano nazionale, la sinistra (che rema sempre controcorrente, anche se spesso si illude che non sia così) deve portare a sintesi una grandissima complessità risultante da molte diversità. Perciò – salvo che non s’innamori di una ricerca del consenso che non le appartiene, quella puramente mediatica – deve guardare alle città (e in differente misura alle regioni) come a preziose scuole della politica.

Due grandi capitali, del Nord e del Sud, al termine di una battaglia che ha suscitato entusiasmo e stupore, si sono riappropriate di un ruolo storico. Hanno imposto come termine di confronto l’esperienza di una rete di solidarietà e di intelligenze in grado di creare egemonia (Milano), e la capacità di intercettare con straordinario tempismo un bisogno popolare di rinnovamento (Napoli). E c’è un’altra conseguenza: l’«anomalia pugliese» ha fatto il suo tempo. Ne è stata archiviata la mitologia espansionistica: le riprove sono da un lato la sua ininfluenza nel cataclisma napoletano, dall’altro la voce dal sen fuggita a Vendola, prontamente stoppata da Pisapia. Milano si è liberata da sola, semplicemente perché ne aveva le forze.