venerdì 22 luglio 2011

Il castello di carte

Non sappiamo in quanti se ne siano accorti, ma in Italia c’è un nuovo Governo. La compagine insediata trionfalmente dal Premier dopo la vittoria elettorale del 2008 si è squagliata, ed è stata sostituita da qualcosa di inafferrabile e sostanzialmente inedito: un governo liquido e policentrico. In verità la cosa era già ben avviata un anno fa, quando la maggioranza di destra perse uno dei soci fondatori; ma il Premier disse che non era vero, che anzi usciva rafforzato dall’epurazione; molta stampa lo stette a sentire; l’opposizione, con l’aiuto del Presidente della Repubblica, gli lasciò il tempo di reclutare un’altra maggioranza parlamentare, posticcia e sfacciatamente venale.

Allora si era all’inizio del fenomeno, che oggi è sotto agli occhi di tutti.
Il Premier non governa più nulla – cioè non fa nemmeno più finta di svolgere un’azione di governo, come faceva quando si agitava qua e là, su Napoli, L’Aquila e quant’altro – ma si occupa ormai apertamente solo di salvare la pelle a sé e al suo impero aziendale. Sugli atti di rilievo, formalmente approvati dal suo governo (interventi militari, manovra economica), dice che lui non è d’accordo, che gli vengono imposti dall’esterno. Il che in un certo senso risponde al vero. Il solo atto di governo di apparente valenza generale (a parte la manovra economica «dovuta»), cioè il decreto rifiuti, non passa perché la stessa maggioranza non lo vuole. E ciò che il Premier dichiara demagogicamente di volere (il taglio delle tasse, la riduzione dei costi della politica ecc.) non si fa, non si può fare, diventa argomento di barzelletta.

Ormai tutti vedono il ruolo di supplenza politica del Presidente della Repubblica, che rispetto ai partner internazionali si pone come unico garante affidabile degli impegni dell’Italia; un tale ruolo svolgeva anche, nel suo ambito, il ministro dell’Economia, e continua a svolgerlo benché manifestamente ripudiato dalla cricca del Premier e pesantemente screditato dallo scandalo che travolge il suo braccio destro. Altre materie di competenza della politica sono state completamente dismesse da molti mesi: in primo luogo la politica industriale e del lavoro, appaltata alla Fiat e alla Confindustria (due soggetti a loro volta in gara fra loro, per vedere come meglio realizzare la resa incondizionata dei sindacati); o la politica “della nascita e della morte”, appaltata alle gerarchie vaticane.

E poi, a governare l’Italia, ci sono i mitici “Mercati” (fantomatica entità che ha sostituito la democrazia), cioè la speculazione finanziaria, unitamente alla Banca centrale europea e alla variegata comitiva di decisori autocratici. Il che vale per tutti i Paesi, un po’ più per chi come l’Italia ha un governo di carta. Tutte queste forze che oggi esercitano un Governo reale, policentrico e suppletivo – Confindustria, Vaticano, capitale finanziario, vertici istituzionali – convergono sulla necessità di tenere in piedi il castello di carte del Premier in quanto un’alternativa non è ancora pronta. Anzi, dal certi punti di vista, per il momento, il castello di carte è l’optimum: perché è debole, ricattabile, e in cambio di un po’ di respiro farà tutto ciò che gli si ordina. Resta in piedi a causa della “moral suasion” del Capo dello Stato – indirizzata in realtà all’opposizione – : pertanto la manovra finanziaria è approvata in tempi contingentati, il che non era riuscito a precedenti governi ben più forti; così come il castello di carte si era salvato nel dicembre 2010 perché «la priorità era la legge finanziaria», «la stabilità del Paese» e via dicendo. Intanto, il Governo reale è in mano altrui.

In tutto questo, la Sinistra non c’entra. Come avevamo previsto, non è lei a giocarsi la partita che è stata riaperta dalle elezioni amministrative e dai referendum. Ha dovuto ingoiare la manovra economica più svergognata, degna dei Miserabili di Victor Hugo (i poveri soffrono, i ricchi godono) limitandosi a lagnarsi perché lei, la Sinistra, non l’avrebbe fatta così. Non è lei a potersi fregiare del voto parlamentare di autorizzazione all’arresto di un deputato (il primo da 27 anni! dico – possibile che in 27 anni tutte le richieste di arresto fossero persecutorie?). Infatti è stato un sacrificio umano offerto dalla Lega al suo popolo imbufalito. La Sinistra (anche quella estrema) disquisisce poi sul carattere qualunquistico dell’attacco alla «casta» e della campagna mediatica sui «costi della politica».

E, perbacco, riesce perfino ad avanzare argomenti dalla parvenza ragionevole punto per punto (come si fa ad abolire di botto le Province, previste dalla Costituzione? come può un vero precario, un singolo individuo gestire una campagna efficace come quella di Spider Truman? ecc. ecc.). Peccato che le sfugga il senso generale delle cose. Peccato che anche stavolta – grazie a un deprimente immobilismo – corra il rischio di restare al palo e di farsi travolgere. Come fu nel 1994; come fu nel 2006, quando una vittoria di Pirro anticipò la batosta di due anni dopo. Della quale fu parte non secondaria la scomparsa della Sinistra sinistra dalle aule parlamentari. Come se non bastasse, questi tre anni e mezzo di esilio non sono bastati alla Sinistra sinistra per riflettere, riorganizzarsi, ma sono stati motivo di lite e rancore fra gli esuli, che oggi appaiono irrimediabilmente divisi in direzioni centrifughe.

Quanto alla Sinistra centrosinistra, non sembra inverosimile un’ipotesi ancora peggiore: che per lei il senso delle cose sia proprio di aspirare a un presunto ruolo di comprimaria dentro il nuovo quadro cui altri stanno lavorando.
Ma si sa, il pessimismo della ragione è congeniale all’ottimismo della volontà. Speriamo che valga anche adesso.


sabato 9 luglio 2011

Paradigma Valsusa


Come l’odissea aquilana del terremoto e del post-terremoto, così l’annosa vicenda dell’opposizione valsusina al progetto di Alta Velocità rappresenta la storia emblematica di una comunità e di un territorio, di una lotta corale per sopravvivere contro lo stravolgimento ambientale e antropologico causato dagli esseri umani (e non dalla natura). Una lotta cui il resto d’Italia e del mondo assiste guardando le immagini televisive, ma il cui significato travalica quello di una vertenza circoscritta e non ha nulla a che fare con quel capriccio localistico, con il quale la si vorrebbe etichettare (della serie: i soliti ambientalisti, quattro montanari, contrari al progresso, «non nel mio cortile» e via dicendo).

Questa storia è un paradigma. Lo è prima di tutto per il mastodontico meccanismo di affari che è stato messo in moto – secondo modalità diverse in ciascuno dei casi, ma con un intento consimile di conseguire la privatizzazione di un habitat – e che ha reso via via indispensabili al raggiungimento del proprio fine, in Val di Susa come a L’Aquila, la compartecipazione dei vertici politici a vari livelli, la manipolazione dell’informazione, la militarizzazione del territorio. Ed è una vicenda paradigmatica, d’altronde, anche per la risposta popolare che ha suscitato: l’auto-organizzazione, la pratica della democrazia di base, la produzione di contro-informazione, nonché la condivisione più o meno attiva da parte delle istituzioni comunali, quelle più aderenti alle istanze della cittadinanza.

Soltanto la tenuta di un movimento civico di questa portata ha permesso di mantenere vigile l’attenzione sugli attentati al territorio e alla democrazia che si stanno perpetrando in Valsusa, e di bucare a tratti il video di un’informazione addomesticata. Così, per esempio, il governatore della Liguria – una delle regioni teoricamente più interessate al progetto Tav – nonché ex ministro dei trasporti, ha dovuto affermare qualche giorno fa che si tratta di un’opera inutile. Così, a quasi una settimana dalla manifestazione del 3 luglio, va sgonfiandosi la montatura black bloc (per non dire della roboanti farneticazioni di «tentato omicidio»). La stessa polizia dichiara adesso di usare il termine black bloc per riferirsi a chiunque adotti certi comportamenti, a prescindere da come si veste.

In molti interventi (su carta stampata, su Youtube, sui siti internet) i No Tav valsusini hanno spiegato che i black bloc non esistono, che a scontrarsi con la polizia sono stati i loro giovani (o anche i loro anziani); e hanno raccontato come si sono svolti i fatti, come è accaduto che i cortei marciando lungo i sentieri di montagna – con il loro seguito di cinquantenni e di famiglie – siano arrivati dove si proponevano di arrivare, di fronte all’autostrada, sopra al contestato cantiere, a contatto con l’acre fumo dei lacrimogeni. In ogni caso, ci sono alcuni arrestati, la magistratura è all’opera e anche i collegi legali. Vedremo come andranno le cose.

Peraltro, che in Valsusa quel giorno vi fossero manifestanti venuti da varie parti d’Italia è davvero la scoperta dell’acqua calda. Non ne avevano forse diritto? Non è diventata la protesta dei No Tav un movimento che riscuote solidarietà anche fuori di quello stretto lembo di terra incastonato fra le Alpi? E poi, certo, fra i giovani (valsusini e non) ve ne sono di quelli che concepiscono un’opposizione militante contro le «zone rosse», considerandole la punta avanzata della moderna espropriazione dell’ambiente, delle risorse, della democrazia. Forse che questa analisi è totalmente infondata?

Da parte nostra, abbiamo maturato un convincimento nonviolento: perché pensiamo che la nonviolenza, il disarmo, siano presupposto indispensabile di un nuovo progetto di società; ma anche perché ci sembra illusorio e controproducente credere di vincere con la forza contro chi ha il monopolio della forza. Eppure, noi sappiamo anche distinguere chi e che cosa è all’origine della violenza. Chi occupa un’antica e popolosa valle con cantieri invasivi, gestiti da imprese non trasparenti, per realizzare una speculazione dai costi insopportabili, invisa alla popolazione, e presidia questi cantieri con battaglioni di poliziotti, e alimenta la disinformazione sullo stato di cose reale – chi fa questo comunica un inequivocabile messaggio di violenza e di sopruso, di cui dovrebbe essere ritenuto responsabile.


venerdì 1 luglio 2011

Dieci anni dopo il movimento

Nell’imminenza del decennale, in molte città italiane vengono rievocati i giorni del G8 di Genova 2001, le manifestazioni promosse dal Genoa Social Forum, la repressione poliziesca che costò la vita a Carlo Giuliani (20 luglio) e culminò nell’aggressione alla scuola Diaz (notte del 21-22 luglio). Anche in Puglia si tengono incontri; a Bari un gruppo di militanti e studiosi ha promosso una giornata seminariale presso la casa dei missionari comboniani (a suo tempo protagonisti di quello che fu battezzato «movimento dei movimenti»).

Dalla regione del tacco vi fu un massiccio afflusso verso la lontana Genova: si ricordano «i mille» che salirono sul treno speciale per la manifestazione del 21 luglio; senza contare quelli che ci andarono con altri mezzi, e i molti che vi si trovavano già dai giorni precedenti.
Noi eravamo fra «i mille» e vogliamo dare un piccolo contributo di testimonianza, un tassello per la memoria collettiva.

Eravamo saliti in treno, la sera del 20, con l’angoscia nel cuore. La morte di Carlo Giuliani, nel pomeriggio, aveva fatto precipitare nell’incubo le pacifiche giornate del forum antiglobalizzazione. Ma speravamo che di fronte a un grande corteo di decine di migliaia di persone – tante ne erano previste per la manifestazione conclusiva di domenica 21 luglio – la furia aggressiva della polizia si sarebbe fermata. La notte trascorse in dormiveglia, fra canzoni e chiacchierate in vagoni gremiti. Sul treno speciale, partito da Lecce, salivano manifestanti in quasi tutte le città pugliesi della linea adriatica.
Arrivammo a Genova di mattina presto in una stazione periferica a est (Quarto: che curioso, proprio là dove erano partiti quegli altri Mille). Era una calda giornata di sole. La stazione e le strade erano piene soltanto di manifestanti; nessun altro si vedeva in giro, tutto era chiuso e non c’era nemmeno la polizia. Man mano che ci incamminavamo in corteo verso ovest, seguendo la costa del mare, prendevamo coraggio; striscioni, colori, i tanti volti di una moltitudine che si andava ingrossando, compagni/e che si incontravano abbracciandosi: tutto questo ci rincuorava, comunicava un senso di forza. Mentre ci avvicinavamo alla zona centrale, incominciarono a giungere notizie frammentarie di cariche della polizia.

Iniziammo a vedere davanti a noi il fumo dei lacrimogeni, mentre sui telefonini venivamo chiamati da chi seguiva i notiziari. Il nostro spezzone di corteo fu fatto deviare su corso Torino, il lungo rettifilo verso nord; fazzoletti in mano, ci lasciammo alle spalle i lacrimogeni e le cariche. In realtà l’insieme della manifestazione era così grande che le cariche riuscirono a disperderne solo alcuni pezzi. Procedemmo ordinatamente come se fossimo noi l’unico e vero corteo, e finalmente vedemmo i genovesi che ci salutavano dai balconi e ci rifornivano di acqua.
Giunti in fondo a corso Sardegna, ci sciogliemmo spontaneamente. Non sapevamo che fare, e che cosa esattamente stesse succedendo alle nostre spalle. Alcuni di noi formarono un drappello che – come tanti altri in modo diverso – decise di provare a raggiungere la stazione di Brignole, al centro, da dove saremmo dovuti ripartire per tornare in Puglia. Attraversato il fiume Bisagno su un ponte nella zona di Marassi, incominciammo a percorrere il lungofiume verso sud, mentre la polizia sbarrava minacciosamente gli altri ponti. Nel tardo pomeriggio arrivammo sul piazzale di Brignole, dove si andavano concentrando i manifestanti che dovevano salire sui vari treni. Colonne di mezzi della polizia sfrecciavano là davanti, in trasferta chi sa da dove verso dove, in mezzo a salve di fischi e urla. Nella stazione furono allestiti dal Social Forum posti di distribuzione di panini e acqua, letteralmente circondati come in un assedio.

Eravamo affamati e assetati, in città non avevamo trovato neppure un bar aperto. Una folla stremata e arrabbiata occupava i marciapiedi lungo i binari. Vi fu l’assalto ai treni, e finalmente partimmo. Il viaggio notturno fu trascorso fra racconti eccitati, ancora canzoni, sonni interrotti. All’alba, mentre i vagoni sferragliavano lungo l’Adriatico, ci raggiunsero sui telefonini, da Genova, le prime notizie di ciò che era accaduto nella notte: la «macelleria messicana» della scuola Diaz.

Non sapremmo dire se il luglio 2001 fu un punto di arrivo e di crisi del movimento no global – la novità più significativa dei nostri tempi, prima delle rivolte arabe – o piuttosto un inizio. La stagione del World Social Forum proseguì ancora per qualche anno con incontri mondiali. In Italia, il 2002 fu l’anno di due grandi manifestazioni permeate dallo spirito del movimento antiliberista: quella della Cgil del 23 marzo a Roma, in difesa dello statuto dei lavoratori (proprio la Cgil, che aveva fatto mancare la sua adesione al movimento di Genova) e quella pacifista di Firenze del 9 novembre. Nel 2002-2003 le bandiere della pace sventolarono da molti balconi italiani, perfino nelle chiese. In tutto il pianeta il movimento pacifista, «seconda potenza mondiale» (scrisse allora il «New York Times») raggiunse il suo apice, poco prima della guerra in Iraq. Fu allora, probabilmente, che si chiuse la fervida stagione del movimento no global. Restavano i semi sparsi, e anche la Primavera Pugliese ne raccolse qualcuno.